L’ammainabandiera dell’URSS

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La Piazza Rossa era bianca di neve, vuota, silenziosa. Il giorno prima il resto d’Europa aveva celebrato il Natale cristiano; ma a Mosca, quel 25 dicembre 1991, era andato in scena l’epilogo di un dramma durato settant’anni: la fine dell’Unione Sovietica. Sul pennone del Cremlino, verso sera, era scesa la bandiera rossa con falce e martello, sostituita da quella bianca, rossa e blu della Russia; quasi nello stesso momento Mikhail Gorbaciov aveva rassegnato le dimissioni da presidente dell’Urss con un breve discorso trasmesso in tivù. Nelle strade della capitale non si avvertivano né gioia né dolore: indifferenza, piuttosto. La gente aveva cose più importanti a cui pensare: come sfamarsi, per esempio.
Soltanto due quotidiani russi ripresero per intero il discorso delle dimissioni. La televisione l’aveva mandato in onda senza commenti. E non ci fu niente di solenne nell’ammainabandiera: nessuno spettatore, nessuna colonna sonora, funerea o trionfale. Avvenne quasi in sordina, di nascosto, sebbene quell’atto meccanico avesse fatto calare il sipario su gran parte del ventesimo secolo. La rivoluzione del 1917, la guerra civile tra bianchi e rossi, la vittoria sul nazismo, il progresso dall’aratro all’atomica, il primo uomo nello spazio, l’arcipelago Gulag, i carrarmati a Budapest e a Praga, il muro di Berlino, l’Afghanistan: tutto spazzato via da una bandiera che scende dal pennone. Piangevano solo, davanti al teatro Bolscioj, i vecchi veterani dell’Armata Rossa, con le medaglie sulla giacca: gli altri, favorevoli o contrari, erano occupati a tirare avanti o a pianificare vendette, ruberie, rese dei conti. Un assaggio di quello che sarebbe seguito nei vent’anni seguenti.
C’era aria di smobilitazione, la mattina del 26 dicembre, al Cremlino. Entrando insieme alla mia collega di Repubblica Fiammetta Cucurnia, non incontrammo un’anima nei cortili dell’ex-reggia zarista. Dentro, corridoi deserti: niente guardie del corpo, scomparse le segretarie. Soltanto Andrej Graciov, il fido consigliere del presidente, era rimasto al suo posto. «Resterò qui ancora un paio di giorni, il 29 dicembre la Russia prenderà  possesso del mio ufficio», disse Gorbaciov, accogliendoci nel suo ampio studio al terzo piano dell’ex-reggia zarista, senza nominare per nome il suo rivale, il presidente russo Boris Eltsin, colui che gli aveva dato la spinta finale per farlo cadere. Alle sue spalle, una scrivania ingombra di telefoni bianchi, che non squillarono una sola volta durante il colloquio; in un angolo il vessillo dell’Urss, che lui non aveva ancora ammainato. Lo zar detronizzato sembrava sorprendentemente tranquillo. E dire che Eltsin, come avremmo scoperto più tardi, proprio quella mattina gli aveva praticamente strappato di mano la valigetta con i codici per lanciare un attacco nucleare, ultimo simulacro del potere: per quanto superpotenza decaduta, l’Urss era pur sempre il solo paese al mondo in grado di annientare gli Stati Uniti con un attacco militare.
Aveva avuto un paio di settimane per abituarsi all’idea di perdere il comando della nazione più grande della terra, ormai allo sbando dopo anni di caos, penurie, rivolte, culminate nel fallito golpe di Pcus-Kgb-Armata Rossa nell’agosto di quell’anno. Il 7 dicembre Eltsin aveva incontrato il presidente dell’Ucraina, Leonid Kravcjuk, e quello della Bielorussa, Stanislav Shuskevic, in una dacia dove un tempo andava a caccia Breznev. Baltici, azeri, georgiani, armeni e i khanati dell’Asia Centrale avevano già  proclamato l’indipendenza. Restava alle tre repubbliche slave fondatrici dell’Urss decidere che fare. Eltsin esibì un vago progetto di Gorbaciov per rifondare l’unione con un nuovo trattato. Nessuno dei tre lo firmò. Brindarono con vodka alla decisione che l’Urss cessava «di esistere come soggetto di legge internazionale», poi andarono a smaltire la sbornia alla sauna. Evgenija Patechuk, una segretaria, scrisse a macchina il comunicato: in seguito, nella sua città , la ribattezzarono «colei che distrusse l’Unione Sovietica». L’8 dicembre Eltsin telefonò la notizia al presidente americano Bush, lasciando al suo partner Shuskevic il compito di informare successivamente Gorbaciov: «E a me cosa succederà ?», fu la sua sbalordita reazione.
Andai spesso al Cremlino, in quei giorni, per incontrare Graciov e negoziare con lui la possibilità  di un’intervista: il testamento politico di Gorbaciov. Il consigliere tergiversava. Passai il Natale chiuso in casa a telefonargli e finalmente nel tardo pomeriggio rispose, fissando l’intervista per il mattino dopo. Ex-presidente da poche ore, Gorbaciov apparve rilassato, come qualcuno che si è tolto un peso dalle spalle, pur esprimendo timori ed amarezza per il suo fallito progetto di democratizzare il comunismo. Alla fine, quando eravamo già  in piedi e posammo con lui per una foto ricordo davanti alla bandiera dell’Urss, ricordò la vacanza fatta tanti anni prima in Italia, nel ’71, con la moglie Raissa, quando era ancora uno sconosciuto, un segretario regionale del Pcus alla scoperta dell’Occidente. L’estate precedente avevo visitato Privolnoe, il villaggio di poche centinaia di abitanti nel sud della Russia dove era cresciuto Mikhail Sergeevic, un luogo di fango mucche mosche, lontano dalla capitale più di quanto la terra disti dalla luna: eppure da quel buco Gorbaciov era arrivato alla sommità  del Cremlino. «Che paese l’Italia», ci disse sulla porta del suo ufficio. «Dio, come erano belle Siena, San Gimignano, Venezia, la Sicilia». Confidò che a Raissa piacevano gli spaghetti, ma si vergognava di non saperli arrotolare con la forchetta. Poi rammentò che in Sicilia un tizio ronzava attorno a sua moglie: «Fui costretto a fargli capire che sarebbe finita male, se non smetteva». Riuscì anche a ridere, in quella drammatica giornata. Ma Graciov, al suo fianco, aveva una faccia da funerale.
Uscendo sfiorammo il cimitero che cinge le mura del Cremlino, dietro il mausoleo con la salma inbalsamata di Lenin. Vi erano sepolti tutti i segretari generali (incluso Stalin ma tranne Krusciov), e poi marescialli dell’Armata Rossa, cosmonauti, eroi del lavoro. C’era anche la tomba dell’unico americano sepolto al Cremlino: John Reed, il giornalista che aveva raccontato la rivoluzione bolscevica in un libro diventato celebre, Dieci giorni che sconvolsero il mondo. Settant’anni più tardi, avevamo assistito ai sei mesi che sconvolsero l’Urss, dal golpe d’agosto alle dimissioni di Gorbaciov. Non sempre tuttavia la vicinanza aiuta a comprendere un avvenimento. Soltanto il mattino seguente, tornando al Cremlino per ringraziare Graciov, mi parve di capire meglio l’enormità  di quanto era accaduto. Attraversando un lungo corridoio deserto, ci imbattemmo di nuovo in Gorbaciov, che si aggirava tutto solo per il suo ex-palazzo. Strinse la mano a me e baciò Fiammetta. Ma con noi c’era Sergej Avdenko, figlio di uno scrittore sovietico e nostro prezioso collaboratore: Gorbaciov abbracciò anche lui e Sergej barcollò, emozionato, incredulo, come tramortito. Per tutta la vita aveva guardato i segretari generali del Pcus solo in tivù o sul palco in cima al mausoleo di Lenin, durante la parata per la festa della rivoluzione: esseri distanti, intoccabili, quasi irreali. E adesso l’ultimo imperatore, sceso dal trono, tornato uomo, abbracciava con semplicità  uno dei suoi sudditi. Una storia era finita. Ne cominciava un’altra.


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