Materie prime, la Cina cambia strategia

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Il cambio di rotta è stato comunicato dai vertici delle principali imprese petrolifere cinesi, CNPC and CNOOC, durante il World Petroleum Congress che si è tenuto la scorsa settimana a Doha, in Qatar. Zhou Jiping, vice presidente della CNPC, ha per esempio detto: “Impiegheremo più manodopera locale, presteremo maggiore attenzione ai bisogni delle comunità  per quanto riguarda educazione, salute, protezione ambientale, e promuoveremo la costruzione di infrastrutture in loco.”

Finora, il modello era piuttosto semplice ed efficiente: il Dragone esportava investimenti, infrastrutture e lavoro nei Paesi ricchi di materie prime senza porsi alcun problema politico o morale. Trattava direttamente con il governo del luogo, qualunque fosse. Questo garantiva a Pechino un vantaggio competitivo rispetto all’Occidente che, almeno a parole, si fa pregio di non investire laddove i governi non corrispondano a un certo standard democratico (secondo il presunto principio universale di “democrazia liberale”). Così, il Celeste Impero è penetrato con decisione nella competizione per i giacimenti, soprattutto in Africa.

La Cina fa affari con tutti secondo il principio politico di non intromissione negli affari interni altrui e, soprattutto, con un occhio alle proprie esigenze domestiche: quelle di un’economia energivora, da “fabbrica del mondo”, che deve però recuperare terreno rispetto alla plurisecolare espansione geopolitica ed economica dell’Occidente.

Trattare con tutti significa spesso fare affari con elite locali corrotte o autoritarie, che intercettano gli investimenti cinesi senza ridistribuirne i benefici alle popolazioni. Aggrava la situazione il fatto che il Dragone esporta anche forza lavoro e i cantieri africani, per esempio, sono pieni di maestranze cinesi più che di manodopera locale.

Da un’iniziale fiducia nell’arrivo della Cina, vista come alternativa all’Occidente, le popolazioni interessate sono così passate gradualmente a criticare il “neocolonialismo” cinese: l’astronave di Pechino atterra da un mondo lontano, fa razzia e poi riparte. Ovviamente, i media statunitensi e in parte europei hanno gettato benzina sul fuoco, denunciando tutto il modello cinese come un tentativo di espropriare i legittimi possessori di ricchezze naturali (da che pulpito), offrendo in cambio un ulteriore rafforzamento e arricchimento degli oppressori di turno (da che pulpito bis).

Dato che ora la Cina ha deciso di passare alla fase due del proprio divenire superpotenza, vuole cioè esercitare un proprio soft power fatto di export culturale, una correzione di rotta si imponeva. Come conquistare cuori & menti oltre che i portafogli?
Ecco la nuova strategia di Pechino: esportare soprattutto investimenti e know how, diminuire la quota di materie prime importate in Cina, ridurre drasticamente il flusso di forza lavoro cinese verso gli altri Paesi.

È un cambio di rotta che di fatto sancisce una trasformazione della stessa economia cinese.
Pechino punta all’efficienza energetica e ha diversificato le proprie fonti di materie prime. Le grandi imprese a partecipazione statale possono quindi permettersi di diventare un po’ meno “politiche” e di seguire una strategia più commerciale, basata sulla creazione di industrie locali con cui condividere i profitti e sul lancio di poli dell’innovazione, non solo nei Paesi in via di sviluppo: Zhou Jiping ha per esempio annunciato a Reuters l’apertura di un istituto di ricerca a Houston, Texas, per migliorare le competenze del personale CNPC nella ricerca e nello sfruttamento dei giacimenti. Viene meno inoltre la convenienza di esportare manodopera: “I lavoratori cinesi non sono più a buon mercato – dice Chen Weidong della CNOOC – quando li trasferisci da casa loro a una località  remota, devi fornirgli tutte le sistemazioni. E i costi si sommano.”

L’aspetto politico si aggiunge al cambiamento economico. Se è vero che Pechino ha una propria agenda per conquistare cuori & menti, non è detto però che questo corrisponda alle politiche dell’Occidente. La Cina non sembra per esempio intenzionata a ridurre la propria presenza in Myanmar, Siria e Sudan, Paesi in cui multinazionali come Shell e Total non possono investire per ragioni del tutto politiche. Il principio di non intromissione negli affari interni degli altri Paesi per ora non si tocca.


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