Tra logica del pogrom e mito della verginità 

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Solo dopo la ragazzina, terrorizzata dalla portata della reazione del quartiere, ha ammesso che non c’era nessun rom e nessuno stupro. Le cronache riferiscono che era stata invece con un ragazzo italiano, che era la sua prima volta e che era atterrita dalla possibile reazione dei familiari alla perdita della verginità .
La notizia grossa è quella del pogrom verso la comunità  rom, ennesimo frutto di una cultura dove si cresce imparando a temere il diverso e lo straniero a prescindere dal fatto che sia colpevole di qualcosa. Immagino che si troverà  senza difficoltà  qualcuno pronto a dire che, se non era vero stavolta, lo sarebbe stato comunque la prossima. Il fatto che questa cultura negli ultimi vent’anni abbia trovato sponda politica e sia riuscita a generare sindaci, assessori, presidenti di provincia e di regione, europarlamentari e persino ministri ha aiutato molto a farla passare dal bancone del bar al sentire comune.
È anche grazie a questo se oggi in Italia c’è chi ha smesso di vergognarsi di essere razzista. La notizia che invece appare come secondaria è che una ragazzina di sedici anni ha creduto che fosse meno pericoloso e grave per lei dire che era stata violentata da due “stranieri” piuttosto che ammettere di aver fatto l’amore volontariamente con un ragazzo del posto. Non voglio pensare che una ragazza dica una calunnia simile per gioco. È assai più credibile che lo abbia fatto perché avvertiva che se avesse detto la verità , cioè se avesse dichiarato di aver fatto l’amore perché voleva farlo, sarebbe stata percepita e trattata come “colpevole” di qualcosa e sarebbe andata incontro a qualche tipo di sanzione, sociale o familiare, morale o fisica.
Qualche articolo ieri riportava l’abitudine della famiglia a farla periodicamente controllare da un ginecologo per verificarne l’illibatezza, un uso tribale che, se confermato, direbbe molte cose sul clima in cui la ragazzina deve aver concepito la sua irresponsabile e protettiva bugia. Ma è marginale. Resta comunque l’immagine di una ragazzina che nell’Italia del 2011 fatica di più ad ammettere di essere stata consenziente che a farsi passare per vittima di stupro indicando il primo colpevole credibile, magari quello la cui etnia è già  in sé una sentenza: rom.
Quella ragazza non poteva prevedere che molti nel quartiere avrebbero strumentalizzato la sua falsa condizione di vittima come innesco della loro rabbia e dell’antica voglia razzista di dar fuoco ai campi rom di ogni latitudine. L’incendio dell’accampamento non è in nessun modo colpa sua. Ma è accaduto e i vigili del fuoco si sono trovati davanti non solo le fiamme, ma anche una folla decisa a impedire che l’incendio venisse spento prima di aver bruciato tutto.
Qualcuno, solidale con chi ha appiccato il fuoco a prescindere dalle responsabilità  nello stupro, mi ha scritto su Facebook che era ora, che gli abitanti del quartiere sono spaventati e che se anche adesso non gli è passata la paura di uscire di casa in mezzo a tutti quegli zingari, almeno la rabbia si è sfogata.
Davanti alla cenere e alle bugie ora si parlerà  di razzismo, ed è sacrosanto che avvenga. Ci si chiederà  pure cosa sta succedendo nella civile e solidale Torino, ed è giusto che ce lo si chieda. Ma spero che qualcuno si faccia domande anche su quale tipo di italianissima cultura è quella che induce una giovane donna a credere che la condizione di stuprata sia per lei socialmente più vivibile di quella di chi fa l’amore perché lo ha scelto.


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