L’insidia dei troppi no: dimenticare la crescita

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Il quesito su cui soffermarsi, dunque, è un altro: i sindacati italiani hanno tematizzato con sufficiente lucidità  la fase che si è aperta con il drammatico autunno dello spread? Ovvero qual è la loro piattaforma per tentare di governare i cambiamenti che si stanno abbattendo sulla società  italiana e minacciano di ridisegnarne i contorni? Dopo due o tre anni in cui il dibattito sul lavoro è vissuto prevalentemente per le idee e le iniziative dell’ex ministro Maurizio Sacconi si ha l’impressione che le confederazioni abbiano perso l’abitudine a ragionare «lungo». Si siano per così dire adagiate nel bipolarismo sindacale, alcune in stretto rapporto con il governo e le altre sulla difensiva. A soffrirne è stata non solo l’unità  d’azione ma complessivamente l’autonomia di elaborazione. Con lo sciopero di oggi Cgil-Cisl-Uil sono tornati a muoversi unitariamente però assomigliano più a quei difensori che al momento di un calcio piazzato organizzano una tremebonda barriera. Invece, a costo di essere tacciati di benaltrismo, è giusto dire che il sindacalismo confederale, forte delle sue tradizioni, potrebbe e dovrebbe mettere in campo un pensiero nuovo, la capacità  di elaborare uno scambio con la politica che percorra strade inedite.
È quasi naturale, argomentando quest’idea, suggerire il paragone con Luciano Lama e la svolta dell’Eur (1978) nella politica contro l’inflazione. In precedenza il sindacato si batteva per l’aumento nominale dei salari («variabile indipendente») e stentava a prendere atto come l’inflazione a due cifre mangiasse rivendicazioni, conquiste e scioperi. Ecco, nell’epoca del debito ai limiti del default ci vuole la stessa lungimiranza ed esempi virtuosi ne esistono non solo nella bacheca della Cgil ma anche nelle biografie dei Carniti e dei Benvenuto. Se si resta a valle si finisce per battersi per l’equa spartizione delle briciole, se si lavora a una piattaforma di medio periodo capace di leggere i mutamenti della società , quelli spontanei e quelli da accompagnare, allora ci si posiziona a monte laddove si compiono le vere scelte.
Gli obiettivi del nuovo scambio non possono che essere la crescita e l’inclusione di donne e giovani, per raggiungerli la politica deve superare pigrizie e timidezze ma le parti sociali devono sapere che lo sviluppo-senza-spesa-pubblica passa per la rivisitazione di alcune rendite di posizione e in concreto per un negoziato senza tabù. Non ci si può opporre a tutto, dall’eliminazione delle pensioni di anzianità  all’apertura domenicale dei negozi e persino alla liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C! Ogni novità  contiene un’insidia mai un’opportunità , questo è il messaggio che arriva. Eppure il sindacato italiano è stato in passato più rappresentativo di altri perché ha saputo far convivere nelle sue rivendicazioni le protezioni e il cambiamento e quando ha capito che le prime sarebbero state superate dagli eventi ha avuto la capacità  di reinventarle. È questo oggi il lavoro da fare sapendo che c’è una novità  rispetto al passato: sta cambiando profondamente l’orientamento dei lavoratori. Le più recenti ricerche, da Roberto Weber a Daniele Marini, dimostrano come il sentimento in fabbrica e in ufficio stia evolvendo verso il pragmatismo e l’aziendalismo. Oltre alle indagini sociali lo attestano diversi episodi e soprattutto la contrattazione aziendale che accetta il controllo dell’assenteismo scambiandolo con richieste di welfare integrativo. Nessuno, dunque, chiede a Cgil-Cisl-Uil di immolarsi e di andare controcorrente, è sufficiente che i gruppi dirigenti sappiano leggere i mutamenti ed elaborare una proposta all’altezza dei tempi. Che prenda di petto i problemi e si misuri nel trovare le soluzioni. In fondo è questa la vera essenza del dialogo sociale.
P.S. Dal canto suo il ministro Fornero potrebbe dare un segnale importante ripristinando le norme che vietano le dimissioni in bianco delle giovani donne.


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Gorno: il rilancio della crescita? Serve l’intervento dello Stato

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ROMA — In tempi di crisi il ritorno dello Stato nell’economia non deve fare paura, se serve a sostenere quella crescita che non c’è. A dirlo è Giovanni Gorno Tempini, l’amministratore delegato della Cassa Depositi e Prestiti, la società  pubblica partecipata al 30% dalle Fondazioni di origine bancaria, che gestisce la grande risorsa della raccolta bancaria e finanzia, oltre che l’attività  di Comuni e Regioni, anche gli investimenti in infrastrutture e nelle società  strategiche attraverso il Fondo (Fis), nato un anno fa.

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