Critica della ragione emotiva

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Life. Motions, Motives, Emotions è il titolo, accattivante, di un convegno che c’è stato a novembre nell’Università  di Los Angeles. Dedicato in larga parte al pensiero italiano – da sempre radicato nella falda vitale delle passioni –, esso ha messo in risalto il ruolo crescente assunto dalle emozioni nelle dinamiche contemporanee. Lungi dal circoscriversi alla sfera individuale, o agli ambiti dell’arte e della psicologia, il linguaggio delle emozioni irrompe sempre più negli scenari sociali, invadendo i territori della politica e dell’economia. Mentre le piazze di tutto il mondo, dal Nord Africa all’Europa, agli Stati Uniti, ribollono di passioni calde – ira, entusiasmo, speranza –, le borse oscillano secondo le ansie e gli sbalzi di umore degli operatori. Tutt’altro che soggetta all’algida legge dei numeri, o conformata alla razionalità  di procedure tecniche, insomma, la vita collettiva appare esposta ad ondate emotive dall’andamento imprevedibile. Ciò è tanto più rilevante perché appare in controtendenza con il movimento di razionalizzazione della civiltà  moderna. Come è noto, la secolarizzazione ha avuto un effetto di raffreddamento nei confronti dei conflitti, e anche della passionalità  sfrenata, che caratterizzavano l’epoca precedente. Rispetto ad essi la modernità , nel suo complesso, ha attivato un generale dispositivo immunitario, teso a raffrenare istinti e forze emotive che, se abbandonate alla loro spinta naturale, avrebbero potuto avere effetti potenzialmente dissolutivi. Naturalmente i filosofi moderni – da Cartesio a Kant – trattano delle passioni, ma dal punto di vista di una razionalità  destinata ad imbrigliarle e governarle. È vero che, già  a partire da Rousseau e per tutta la fase romantica, le mozioni del cuore sembrano di nuovo prevalere su quelle della ragione – ma più nell’orizzonte individuale che in quello degli orientamenti collettivi. Perfino l’homo democraticus – come è profilato da Tocqueville – è caratterizzato da un’atrofia passionale, dominato da un conformismo che lo rende simile a tutti gli altri, senza però unirlo ad essi in un progetto comune. Apatia ed indifferenza sono il sintomo di questa perdita di emotività  che può arrivare fino alla sottomissione al dispotismo. Anche il progressivo rattrappimento del desiderio, sostituito dalla ricerca del godimento immediato, che connota le nostre società , può essere interpretato come un esito non voluto dell’individualismo moderno. L’onda di riflusso che ha seguito, atrofizzandone la spinta energetica, i movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta, sembra riconsegnare il mondo occidentale ad una carenza emotiva sempre più marcata, fino a determinare un generale ripiegamento nella sfera privata. Poi, con una di quelle svolte di cui non è facile rintracciare la radice, il pendolo tra le passioni e gli interessi – per riprendere la classica endiadi di Hirschman – è tornato a battere nella direzione contraria. Il motore delle emozioni collettive ha ripreso a girare, ridando fiato a passioni che sembravano estinte. All’origine di questo passaggio si può, forse, situare la caduta del muro di Berlino, con l’accelerazione che ne è seguita nel processo di globalizzazione. Nel momento in cui si sono sbriciolate barriere, ambientali e psicologiche, prima ermeticamente chiuse, anche attraverso la contemporanea diffusione della rete, un sentimento di empatia sembra di nuovo subentrare a quello di apatia. Da allora il contagio delle passioni – ma anche delle ansie e delle paure – sembra divenire inarrestabile. Basti pensare alla risonanza mondiale dell’attentato alle Torri Gemelle. L’immagine dello schianto, ripetuta infinite volte sui teleschermi di un pubblico ormai globale, ha determinato una comunanza di sensazioni più forte di qualsiasi differenza culturale, etnica, generazionale. Da quel momento è bastato che una scintilla scoccasse in una metropoli perché lo stesso fuoco si accendesse in quella vicina e, da lì, in tutta l’area circostante. Come già  la rivolta nordafricana, anche i fenomeni, non lontani tra loro, dei movimenti no global, degli indignados e di OccupyWallStreet si sono diffusi in un lampo da un paese all’altro su un’onda di emozioni inimmaginabile appena qualche decennio addietro. E allora, tutto bene? Possiamo abbandonarci senza esitazione al flusso di questa emotività  collettiva, riconoscendo in essa la soglia di una nuova sensibilità  democratica o addirittura antropologica? Possiamo dare alla semiotica delle passioni – come l’ha felicemente definita Paolo Fabbri – una rilevanza politica di carattere emancipativo? Credo che, prima di dare una risposta compiutamente affermativa a tali domande, occorra un attimo di riflessione e di discernimento. Perfino Martha Nussbaum – in un libro come L’intelligenza delle emozioni (il Mulino 2009), che pure ne valorizza il significato etico e politico – invita a selezionarle in ordine a consapevoli progetti di vita. Per non dire di Judith Siegel, impegnata nell’elaborazione di una vera e propria strategia di controllo capace di metterci a riparo da un surplus emotivo di esito incerto (Stop Overreacting: Effective Strategies for Calming Yours Emotions, New Harbinger 2010). È una cautela più che motivata. Intanto perché, come si è appena visto, il pendolo tra passioni calde e passioni fredde è certamente soggetto ad ulteriori spostamenti, anche in rapporto al continuo mutamento degli scenari politici. Non è un caso se, come ha rilevato più volte la columnist del New York Times Maureen Dowd, lo stesso Obama, eletto anche sulla scia delle emozioni positive che è stato capace di suscitare, abbia dovuto ripiegare su un registro più realistico, ispirato al riconoscimento dei limiti del proprio potere. Ciò che comincia a trapelare è la consapevolezza di un elemento di opacità  interno alla sensibilità  passionale. Si pensi all’effetto ambivalente dei media, in particolare televisivi. Da qualche tempo la differenza, sul piano delle immagini e del lessico, tra la fiction, le trasmissioni di inchiesta e perfino alcuni telegiornali si va assottigliando. A prevalere sono sempre più contenuti, colori, toni, destinati a potenziare le sensazioni forti, a sollecitare una partecipazione diretta dello spettatore alla vicende dei protagonisti. Allo stesso modo, nei programmi strappalacrime, il pianto di mariti abbandonati dalle mogli o di figli in lite con i padri tende a riprodursi senza soluzione di continuità  negli occhi degli spettatori. Il risultato è insieme un eccesso, ma anche una sorta di trasferimento della nostra emotività , “delegata” a coloro che artificialmente la stimolano, con un risultato di smarrimento di ogni distanza critica rispetto all’evento rappresentato. Trascinati su questo piano del contagio emotivo, così come qualsiasi delitto in famiglia ci pare alla fine uguale a tutti gli altri, anche ogni piazza – da quella di giovani democratici che chiedono libertà  a quella di integralisti islamici che inneggiano alla guerra santa – finisce per equivalersi, senza darci la possibilità  di comprendere ciò che realmente sta accadendo. Non solo, ma può generarsi anche un effetto inflattivo. Come ha ben spiegato Odo Marquard (in Estetica e anestetica, il Mulino 1994) una proliferazione di elementi estetici può produrre un risultato anestetico – un blocco emotivo per eccesso di emozioni. Se ci immergiamo nel mare delle emozioni senza il salvagente della ragione critica, rischieremo, prima o poi, di annegare.


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