Stampa, 48 ore per decidere

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Per salvare oltre 90 giornali mancano meno di 48 ore. Tante ne serviranno alla commissione Bilancio per votare i 1.300 emendamenti al decreto Monti depositati da tutti i partiti. Entro stanotte o al massimo domattina la manovra dovrà  essere finita e lunedì sbarcherà  in aula alla camera, dove il governo dirà  se e quanto cambiare. L’urgenza con cui i direttori dei principali giornali che rischiano di chiudere (dall’Unità  e manifesto ad Avvenire) chiedono un incontro al premier, ai presidenti delle camere e ai segretari di tutti i partiti, nasce dalla certezza che abolire di netto la legge sulla stampa del 1990 significa la morte di decine di giornali. Quello che non è riuscito a ottenere Tremonti in tre anni riuscirà  a farlo Monti in tre settimane? In parlamento sono già  pronti diversi correttivi, emendamenti firmati da deputati del Pd, del Pdl e della Lega, che chiedono di rifinanziare un fondo editoria ridotto ormai a meno di 50 milioni. Gli interventi ipotizzati sono diversi per quantità  e qualità . Alcuni chiedono di lasciare il decreto com’è integrando i contributi con meno di 90 milioni, altri mirano a rinviare l’entrata in vigore del taglio o rivedono i criteri di accesso all’intervento pubblico. La cosa più importante, però, è che tutte le proposte in commissione non chiedono soldi freschi all’erario ma trovano le coperture necessarie all’interno dello stesso sistema dell’informazione rendendolo un minimo più equo. Monti, per esempio, può scegliere se aumentare l’Iva sui prodotti non editoriali in edicola (giocattoli e oggettistica varia) destinandola all’informazione, oppure potrebbe aumentare del 50% le concessioni annue delle tv nazionali (oggi pagano circa 50 milioni, i 25 aggiuntivi finanzierebbero la stampa non profit, coop e di partito). Anche limitarsi a «ripulire» il fondo di Palazzo Chigi da voci improprie come il canone a Poste o voci minori del contratto con la Rai significherebbe liberare risorse preziose per il fondo al pluralismo. In tutti gli emendamenti non c’è un euro sottratto ai cittadini, al risanamento del bilancio o ad altre spese necessarie. Si tratta di proposte ragionevoli, fattibili e di buon senso in attesa di una riforma dell’editoria che manca da anni (magari perché in passato a Palazzo Chigi sedeva il primo editore privato italiano). Com’è noto, infine, chiudere e basta il sostegno ai giornali non profit, in cooperativa e di partito è antieconomico per le casse pubbliche: i costi per la liquidazione di decine di aziende editoriali e la perdita di circa 4mila posti di lavoro saranno ben maggiori (perdita fiscale, ammortizzatori, prepensionamenti, etc.) del finanziamento minimale richiesto per il fondo. Se il governo non agirà , dunque, sarà  per una sua responsabilità  precisa. In particolare del nuovo sottosegretario con delega all’editoria Carlo Malinconico che come suo primo atto a Palazzo Chigi ha inserito nel decreto le proposte della sua associazione di provenienza, la Federazione degli editori in un evidente – anche se ancora poco noto al grande pubblico – conflitto di interessi. Malinconico ieri ha ricevuto i vertici del sindacato dei giornalisti. L’Fnsi è contraria al decreto: «È grave parlare di riforma dei giornali se prima li si fanno chiudere». Il sottosegretario ha provato a rassicurare i vertici, Franco Siddi e Roberto Natale, assicurando che si muoverà  «in coerenza con le considerazioni espresse dal presidente della Repubblica»: cioè sì al rigore verso i giornali beneficiari e sì al pluralismo come un bene pubblico da tutelare. Malinconico scoprirà  le sue carte nella prima audizione da «politico» in commissione cultura alla camera, prevista per mercoledì prossimo.


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