La testa di chi governa non cambia, il clima sì

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Tra veti incrociati e disastri presi sottogamba. Il pianeta sempre più caldo non scalda gli animi A proposito di lacrime. Bali, dicembre 2007, ennesima conferenza sul cambiamento climatico. Tredici giorni di scontri su tagli e fondi: ricchi contro poveri, emergenti contro ricchi, in panico le piccole isole, già  quasi sott’acqua. Tutti contro gli Stati Uniti, che dicono no a tutto. Nel caos Yvo de Boer, segretario e organizzatore degli incontri annuali, apre la sessione plenaria ma non si accorge che i G77 sono ancora in riunione. Cina e India lo attaccano e de Boer scoppia a piangere. Stress ma anche consapevolezza dei disastri presenti e futuri presi sottogamba per ignoranza ed egoismo. Gli Stati Uniti alla fine firmano un percorso ma poco o nulla accade a Copenhagen nel 2009 e a Cancun nel 2010.
A Durban sono di nuovo riuniti i delegati di 200 Paesi e alla vigilia della conclusione la Cina non firma se non ci sono soldi e impegni degli altri mentre gli Stati Uniti continuano a opporsi a piani di riduzione delle emissioni, a interventi per mitigare i danni e al Fondo verde, posizioni che annunciano il fallimento o un accordo ai minimi a meno che un evento paranormale non illumini nella notte la comitiva, pronta a buttare miliardi e a invocare la salvezza del mondo se crolla una Borsa, sale lo spread o muore una banca. Il pianeta sempre più caldo sembra invece una anomalia passeggera da affrontare nei ritagli di tempo.
La gravità  dei fenomeni estremi già  in corso non viene percepita nonostante la vita grama di milioni di persone colpite dal mutare del clima e l’allarme di scienziati in preda ormai a crisi di nervi. Raccomandano tagli dell’80% dei gas serra immessi nell’atmosfera e i governi si scontrano su misure ridicole.
Non c’è percezione nemmeno delle altre crisi ambientali – la sesta estinzione di massa delle specie e un inquinamento pervasivo – opera anche loro dell’«agente perturbatore», così definiva l’uomo George Perkins Marsh, un politico di altra caratura, primo ambasciatore degli Stati Uniti presso il neonato Regno d’Italia, nel 1861. Viaggiatore, naturalista, poliglotta, Marsh scrive proprio in Italia il suo saggio pionieristico L’uomo e la natura in cui analizza l’impatto delle attività  umane, ne individua i pericoli originati da conoscenze parziali e dall’ignoranza dei tempi biologici lentissimi, raccomanda precauzioni e risanamento. Dal 1500 il perturbatore europeo con la colonizzazione ha rimodellato territori e società  su scala planetaria, introducendo monocolture, malattie, tecnologie che hanno distrutto tutto ciò che è stato ritenuto «non utile» (Carolyne Merchant, Richard Grove, Alfred Crosby, Jared Diamond) e con la Rivoluzione industriale ha intensificato prelievi di risorse tali da compromettere la capacità  di rigenerazione della natura.
Torniamo al clima. Dal 1988 è stato un susseguirsi di rapporti scientifici, economici e politici sulla realtà  del cambiamento climatico e i suoi effetti, reputati più pericolosi del terrorismo. L’Ipcc, il gruppo di scienziati incaricati dall’Onu, ne ha elaborati cinque ma anche l’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti si è attivata sin dal 1978 e ha consegnato l’ultima analisi a maggio scorso. L’economista Nicholas Stern ne ha quantificato i costi al governo britannico e il Pentagono ha messo in guardia George W. Bush dagli squilibri geopolitici. La risposta dei governi è stata tiepida, mentre le imprese dei combustibili fossili sono entrate in guerra: montagne di soldi e disinformazione senza esclusione di colpi. Il periodico statunitense Mother Jones ha pubblicato l’inchiesta più completa sull’intervento massiccio della Exxon su governi, scienziati e stampa. Un ruolo lo hanno avuto i negazionisti dell’effetto serra. Uno dei più noti, l’ambientalista scettico Bjorn Lomborg, quando ha cambiato idea sostenendo la carbon tax è scomparso dai media, amanti della polemica ma poco attenti allo spessore dei polemisti.
Le iniziative dei governi per fermare il riscaldamento globale sono state dunque poche e criticabili. Mega tecnologie, raccomandate da industrie e militari, crediti del carbonio preferiti dal mercato o biofuel graditi alle grandi imprese, misure che hanno poco di ecologico, per la dimensione, i costi, l’assenza di partecipazione di cittadini e gli effetti negativi sugli ecosistemi. Non basta sostituire il petrolio con qualcosa di color verde. I biocarburanti portano con sé gravi danni per la biodiversità  (monocolture estese e deforestazione), rilasciano gas serra perché si bruciano foreste per fare spazio a piantagioni di alberi adatti, provocano erosione dei suoli, inquinamento e esaurimento delle falde acquifere e, soprattutto, la concorrenza tra produzione di cibo e combustibile che ha già  provocato rivolte sociali. Il bioetanolo da canna da zucchero, barbabietole, mais, orzo e frumento e il biodisel da semi oleosi aprono altre emergenze senza la certezza che ne valga la pena. Possono funzionare piccole piantagioni per uso locale o scarti agricoli, alberi morti, rami da potature. Ma dovrebbe innanzi tutto cambiare la testa di chi governa, aprirla ai modi di funzionare della natura.
La Dichiarazione di Cochabamba, la regione della Bolivia protagonista della resistenza civile che ha impedito la vendita dell’acqua a multinazionali, approvata nel 2010 al termine della «Conferenza dei popoli sul cambiamento climatico e sui diritti di Madre Terra», ha indicato nell’«integrità  dei cicli idrogeologici» l’elemento chiave delle strategie per mitigarlo, ha dichiarato l’aria pulita «un diritto» e promosso un Tribunale internazionale di giustizia climatica. Erano presenti migliaia di delegati dal mondo e i presidenti Morales, Chavez, Correa e Lugo.
Se c’è la volontà  politica e la partecipazione dei cittadini, tutto può cambiare. Ci sono le idee e le tecnologie per convertire agricoltura, edilizia, mobilità  ed energia. L’Ipcc nel suo rapporto sulle energie rinnovabili ha valutato che si possono adottare con successo e in tempi brevi se i politici le sostengono. Un esempio della conversione possibile è un esperimento riuscito in una città  brasiliana, Curitiba, rinnovata per impulso del sindaco Jaime Lerner. Un lavoro ecologico, culturale e sociale iniziato nel 1972 e durato vent’anni con altri tre sindaci di formazioni politiche diverse che hanno proseguito il lavoro di Lerner, diventato governatore dello Stato, il Paranà . Restauro e edilizia su piccola scala a basso prezzo, verde pubblico, metropolitana leggera, autobus economici e con un nuovo design, piste ciclabili, isole pedonali, raccolta differenziata dei rifiuti, riuso e riciclaggio, rispetto orografia fiumi, cultura, scuole e biblioteche, aiuto ai più deboli e cura dei giovani, strutture sanitarie e prevenzione salute, asili, impianti sportivi, orti, gestione dell’acqua secondo natura, microcredito, sostegno a imprese non inquinanti, burocrazia rapida e accessibile, controllo finanziario rigido.


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