La Pantera Nera morirà  in cella niente boia per Mumia Abu Jamal

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WASHINGTON – Morirà  in gabbia, non per le mani del boia, la vecchia Pantera divenuta un simbolo internazionale della battaglia infinita contro la pena capitale. Quando nel 1981 uccise, secondo l’accusa, un poliziotto nelle mean street di Philadelphia sparandogli a freddo in mezzo agli occhi, Mumia Abu-Jamal, allora chiamato Wesley Cook, divenne quasi immediatamente l’incarnazione dell’incubo dell’afro americano violento, ribelle, sovversivo, che la giustizia bianca voleva uccidere per annientare in lui quello che lui incarnava. Ieri, dopo trent’anni di carcere duro, dei quali gli ultimi sedici trascorsi nel braccio della morte in cella d’isolamento, Mumia ha saputo che la sua vita sarà  risparmiata dal pubblico ministero che ha rinunciato all’ennesimo ricorso per ottenere l’esecuzione.
La ex «Pantera Nera» ingabbiata vivrà , se quella è vita. Anche lui, come tutti gli ospiti delle galere e specialmente coloro che trascorrono ogni minuto aspettando di sapere se e quando gli introdurranno l’ago nel braccio, non era più il ragazzo sicuramente violento e ideologicamente motivato di quanto entrò dietro le sbarre. I suoi compagni di sventura lo avevano soprannominato «Pops», papà , guardando i suoi lunghi «dreadlocks», le treccine, ingrigirsi e la sua carica ribelle non esaurirsi, ma incanalarsi nei libri e nelle memorie che scrivere, come la famosa «In diretta dal braccio della morte» che divenne un libro di culto dove gruppi di pressioni erano nati per chiedere gli salvargli almeno la vita.
Si era adattato, senza mai addomesticarsi, Mumia, a un’esistenza che lo costringeva per 23 ore al giorno nella gabbia di tre metri per due, senza rinunciare a sostenere la propria innocenza e la ingiustizia razzista perpetrata contro di lui, per colpire tutta la comunità  afro di una città  come Philadelphia che aveva visto rivolte, sommesse, giornate di guerriglia e massacri in bianco e nero. Ora sa che morirà  in carcere, senza nessuno di quei piccoli privilegi e di quelle avare concessioni che i direttori delle carceri, e gli agenti di custodia fanno agli anziani e ai detenuti di lungo corso. «Mi accerterò con ogni mezzo – ha promesso il «Ditstrict Attorney», il procuratore distrettuale Seth Williams, un afroamericano, nella sua rabbiosa arringa di resa finale – che la sua vita, quello che ne rimane, sia tanto dura quanto i regolamenti consentono».
Nel braccio della morte del carcere statale di Greene, in Pennsylvania, Mumia aveva visto passare tre compagni di pena avviati sul sentiero del morto che cammina, perché la Pennsylvania è, dal 1976 quando il supplizio finale fu riautorizzato negli Usa, uno degli Stati più moderati nell’applicarlo, rispetto ai macellai texani, che ne hanno uccisi 477 o della Virginia, con 109. Anche lui, come i più fortunati dei suoi compagni, era scampato per tre decenni al boia grazie al labirinto di ricorsi, appelli e petizioni. Nel suo caso, che la giustizia aveva voluto rendere simbolico, lo stesso simbolismo si è rivoltato contro i suoi persecutori e lo ha reso oggetto di una mobilitazione internazionale. Ma neppure i cortei, i sit-in, i libri, le interviste alla radio, quella radio dalla quale lui, negli anni ‘70, lanciava come direttore della «Black Network» i messaggi politici di rivolta, lo avrebbero risparmiato se non avesse trovato un giudice di origine coreana, William Yon, e poi soprattutto la Terza Corte d’Appello, notoriamente e scandalosamente progressista per i conservatori, che avrebbero formato il muro di gomma sul quale tutti gli assalti si sarebbero esauriti.
La sua colpevolezza nell’assassinio del poliziotto Daniel Faulkner, un giovane agente di 25 anni, rimane accertata, per la giustizia. Il rapporto ufficiale della polizia racconta che nella notte del 9 dicembre di trent’anni or sono l’agente Faulkner di pattuglia nella zona nera della città  fermò un taxi per controlli. Al volante c’era il fratello dell’allora Wesley, oggi Mumia convertito all’Islam nero. Dalla notte, sbucò un’altra auto, pilotata dall’imputato che si fermò accanto al taxi. Ne scese Mumia che avvicinò il poliziotto, gli sparò e quando lo vide a terra lo finì con un colpo fra gli occhi.
Né Mumia, né il fratello, testimoniarono mai. Soltanto nel 2001 il fratello, il tassista, consegnò all’avvocata che rappresentava l’ex Pantera Nera un «affidavit», una deposizione giurata nella quale spiegava che non il fratello, ma un terzo uomo, aveva ucciso l’agente Faulkner. Bastò questo per riaprire il sentiero dei ricorsi e degli appelli. E ieri, con il capo della polizia, la vedova della vittima e il figlio orfano accanto, il procuratore ha annunciato la propria resa, dopo che il giudice Yon gli aveva messo davanti un aut-aut: o continui a chiedere l’esecuzione, e trascorreranno anni facendo spendere fortune ai contribuenti o ti arrendi e rinunci, in cambio della certezza che il condannato non uscirà  mai vivo dal penitenziario di Greene. Schiumando, battendo i pugni sul leggio, il procuratore si è piegato. La condanna a rinunciare alla sua vita è rimasta, per la Pantera che ormai ha 57 anni, ma sarà  il tempo, non gli uomini, a eseguirla.


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