I dubbi dell’Isvap frenano il piano per Fonsai

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MILANO – Fondiaria studia un “piano B”. Almeno, è questa l’impressione che ha avuto il mercato, che ieri ha fortemente punito il titolo con un calo del 5,82%, nella convinzione che l’unica strada possibile sia un aumento di capitale per la disastrata compagnia di assicurazioni.
Di sicuro, l’incontro romano di ieri tra il numero uno di Fonsai, Emanuele Erbetta, e il presidente dell’Isvap Giancarlo Giannini, ha confermato le perplessità  che l’autorità  di vigilanza aveva già  informalmente espresso nei giorni scorsi sulla costituzione di un veicolo in cui trasferire le partecipazioni strategiche controllate dalla compagnia, vendendone contestualmente circa il 40% ad un soggetto terzo, il Credit Suisse. Ufficialmente Fonsai ha fatto sapere che il capitolo veicolo «è attualmente oggetto di approfondimenti, al fine di verificarne la percorribilità  da parte della compagnia» e che allo stato «continuano peraltro a non esservi elementi concreti da comunicare al mercato sull’operazione in questione».
Secondo le indiscrezioni di mercato non ci sarebbe stato un no formale da parte dell’Isvap per la buona ragione che non è stata presentata una richiesta ufficiale di autorizzazione. Però l’autorità  di vigilanza si sarebbe spesa per chiedere approfondimenti e riflessioni, da concretizzare nel cda del 12, che viene considerato di grande importanza, proprio perché potrebbe mettere punti fermi sulle misure di efficientamento del capitale, necessarie a riportare il Solvency margin in zona di sicurezza. Le perplessità  sollevate dal veicolo – a parte la considerazione su quanti punti di Solvency possa mai portare – riguardano in particolare la soluzione di vendita “a tempo”, l’opzione call (di riacquisto) che sicuramente la società  avrebbe (per non parlare delle possibili vie di uscita del Credit Suisse). Ebbene, è il ragionamento di molti operatori: se è una vendita vera e propria è la spoliazione di un diritto importante in seno ai salotti buoni della finanza italiana, in cambio di troppo poco; se è una vendita solo apparente, se si tratta di una forma di finanziamento da parte del Credit Suisse, c’è un costo a carico della compagnia, perché queste cose si pagano; dunque, a conti fatti non è detto che una simile operazione sia conveniente per la compagnia.
Quasi certo, invece, che il veicolo da solo non sia sufficiente per riportare la società  in sicurezza: se il filo del ragionamento è corretto, serve anche un aumento di capitale (sempre che non si parli solo di aumento di capitale). La cui dimensione dipende ovviamente dal se e da quante altre misure di capital management verranno trovate e proposte nel consiglio di lunedì prossimo. Giova però ricordare che il precedente aumento, da 450 milioni di euro, è stato interamente bruciato dalla crisi dei mercati.
Diverso è capire come sia possibile ricorrere nuovamente al mercato dopo pochi mesi. Il quadro migliora leggermente se si ritiene (e probabilmente non si sbaglia) che Mediobanca e lo stesso Unicredit non farebbero mancare il loro appoggio ad un’operazione di ricapitalizzazione. Più complessa è la posizione di Premafin. La holding di controllo, nonostante il nuovo socio delle Bahamas (con forti legami con Ligresti) difficilmente avrà  i mezzi per seguire l’aumento. Ma forse, uno scenario in cui la famiglia Ligresti si diluisca un po’ non viene considerato un grand male da qualche altro protagonista della scena.


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