Le super università  alla conquista del Golfo

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NEW YORK. Education City, non ti aspetti che questo nome appartenga a Doha, la capitale del Qatar. Nell’emirato “progressista” del Golfo persico, quello che finanzia la tv Al Jazeera, sta sorgendo il nuovo esperimento avveniristico: è il primo campus globale, costruito dal nulla importando delle super-università  americane. Si chiamano Georgetown, Northwestern, Carnegie Mellon, Weill Cornell Medical College, Texas A&M, Virginia Commonwealth, le “magnifiche sei” che si sono lanciate in quest’avventura. È un progetto che traccia il futuro del sistema universitario. Le migliori del mondo sono ormai delle vere e proprie multinazionali. Come nel Big Business, si muovono secondo strategie globali. Vanno dove il mercato tira, cioè oggi nei paesi emergenti. Non è solo il privato a muoversi così. Perfino più clamorosa è la decisione di Berkeley, un’istituzione di Stato, che appartiene al sistema pubblico delle University of California. Per la prima volta ha trapiantato un pezzo di se stessa in Cina, molto più di una testa di ponte: un proprio “clone” a Shanghai.
Non solo per fare insegnamento, perché la logica non è quella di trasformarsi in diplomifici di massa: UC-Berkeley va a Shanghai per fare ricerca, con un’intera sezione dei propri dipartimenti più avanzati che si dedicheranno all’innovazione pura. Che Cina e India siano dei formidabili giacimenti di talenti e intelligenze, non è una scoperta di oggi. Più sorprendente è quel che sta accadendo nel Golfo. Il vento della contestazione giovanile che un anno fa cominciò a generare i sintomi precursori della “primavera araba”, al Cairo forse ha già  lasciato il posto a un “tardo autunno” di restaurazione, militare o islamica. Ma altrove qualcosa di positivo sta nascendo, all’ombra delle petro-monarchie più illuminate. È un cambiamento che germina all’incrocio fra due necessità . Per il mondo arabo c’è l’emergenza-giovani, questa nuova generazione irrequieta e spesso disoccupata, non ha ricevuto finora una formazione adeguata per competere con i migliori cervelli che vengono dall’Estremo Oriente, dagli Stati Uniti, dall’Europa.
Dall’altra parte ci sono le grandi università , soprattutto americane e inglesi, lanciate in una competizione sfrenata per conquistare quote del nuovo business: l’istruzione globale. In mezzo, per fare da raccordo, ci sono i petrodollari che Qatar, Abu Dhabi e Dubai hanno accumulato nei loro fondi sovrani. Una delle prime a intuire le potenzialità  di quell’area fu la New York University, che quest’estate ha concluso il primo anno accademico completo nel suo nuovo campus di Abu Dhabi, il più ricco degli emirati arabi. La super-università  americana accoglie nella nuova sede sul Golfo persico 150 studenti da 39 paesi, secondo criteri squisitamente meritocratici importati dall’America: nelle stesse aule ci sono figli di emiri multimiliardari, e ragazzi venuti da famiglie poverissime che hanno vinto borse di studio. L’università  usa delle squadre apposite di selezionatori esterni, che girano il mondo a caccia dei “cervelli eccellenti”. I meritevoli si vedono offrire il viaggio spesato fino a Abu Dhabi per l’esame di ammissione finale. La selezione è così spietata che l’anno prossimo riusciranno a qualificarsi per l’iscrizione solo 196 studenti sui 5.854 che hanno superato il primo filtro. Con un tasso di creazione del 3,3%, N.Y.U.-Abu Dhabi è più severa di Harvard, che ammette il 6% dei richiedenti. La retta per il campus di Abu Dhabi è alta quanto nelle più esclusive università  d’America, 53.000 dollari all’anno, ma «proprio come a Princeton e Harvard, chiunque superi i criteri di ammissione riuscirà  a entrare, se non ha i mezzi gli diamo la borsa di studio noi», garantisce il rettore John Sexton che sta già  preparando l’inaugurazione di una “succursale” analoga a Shanghai. Il successo di N.Y.U.-Abu Dhabi è il trampolino di lancio per un’operazione ancora più avveniristica, che i suoi dirigenti definiscono «la prima vera università  globale». Questa nascerà  dalla joint venture con University of the People, un’istituzione non profit che offre nel mondo intero i suoi corsi, esclusivamente online. Finora le superfacoltà  tipo Harvard e Berkeley si sono avvicinate ai corsi su Internet con qualche cautela, perché in America il terreno è stato “inquinato” – nel segmento più basso del mercato – da iniziative scadenti e di dubbia fama, come la University of Phoenix. Le università  al top delle classifiche mondiali finora hanno preferito sviluppare i corsi online come dei supplementi, delle integrazioni didattiche, mantenendo uno stretto controllo sulla qualità  dei corsi e sul rapporto docente-studente. La University of the People, creata due anni fa dall’imprenditore israeliano Shai Reshef, sta abbattendo ogni residua diffidenza. I suoi corsi sono in due settori, Business School e informatica. L’intento egualitario e democratico è decisivo: molti prof sono volontari, il materiale di studio è gratuito, tra gli iscritti (1.000 studenti da 115 nazioni) ci sono anche dei giovani terremotati di Haiti oltre a cinesi, indonesiani, vietnamiti, nigeriani. La University of the People è riuscita a mantenere degli standard di qualità  elevati, e adesso la joint venture con N.Y.U.-Abu Dhabi espanderà  la sua offerta con una nuova gamma di corsi online.
Il successo di N.Y.U. sul Golfo Persico ha accelerato i tempi della competizione. La rivale Doha ha dietro di sé l’emiro “progressista” del Qatar (odiato da tutti i dittatori dell’area per la sua Al Jazeera che fa da cassa di risonanza delle proteste), che nutre progetti ancora più grandiosi. La sua Education City nasce su una scala dimensionale senza precedenti. Non si era mai visto un polo universitario nato dal nulla e capace di attrarre sei università  americane di ottimo livello. È il concetto di “hub”, che gli emirati del Golfo hanno sperimentato prima nel trasporto aereo creando aeroporti trafficatissimi dove gran parte dei passeggeri sono diretti in altre zone del mondo; le stesse città  come Doha e Abu Dhabi si sono inventate nuove vocazioni come “hub” della finanza. Ora ci provano nell’istruzione di alto livello. Sapendo che a portata di mano ci sono risorse preziose: le giovani generazioni del mondo arabo sono abbondanti e continuano a crescere; l’infrastruttura di trasporto fa del Golfo un incrocio ideale tra Occidente, Africa, India, Estremo Oriente; infine i capitali non fanno difetto. La creatività  è anche urbanistica: la Qatar Foundation ha indetto gare tra i migliori architetti del pianeta per inventare dei campus che devono nascere all’insegna della filosofia dei Grand Designs, letteralmente Progetti Grandiosi. Quel Golfo che finora è stato identificato con la rendita petrolifera, vuole usarla per costruire una Knowledge Economy, un’economia della conoscenza. Northwestern, Carnegie Mellon, Weill Cornell Medical College, Georgetown University, Virginia Commonwealth University e Texas A&M, applicheranno gli stessi programmi dei loro campus americani, stessi criteri di selezione e poi di votazione. A differenza che in altre nazioni islamiche, nessuna segregazione tra i sessi, le classi saranno sempre miste. A capo di Education City ci sarà  un’istituzione, la Hamad Bin Khalifa University, che è stata copiata fedelmente sul modello di Oxford e Cambridge a garanzia dell’autonomia d’insegnamento. Questo aspetto è importante in un’area del mondo dove l’indipendenza delle università  dal potere politico o religioso non è stata sempre garantita.
Non è solo il mondo universitario angloamericano a espandersi secondo un’aggressiva strategia globale. I francesi hanno deciso di competere con le stesse armi. Una delle più importanti Business School transalpine, la Hec di Parigi, ha inaugurato a febbraio il suo primo campus a Doha: è la quarta succursale di Hec fuori dalla Francia dopo Pechino, Shanghai e San Pietroburgo. Dubai per non farsi distanziare ha due “zone franche” destinate a offrire la massima accoglienza alle università  straniere: si chiamano Knowledge Village e Academic City, lì rettori e prof venuti dall’estero possono operare al riparo da qualsiasi interferenza del governo. Tra le 20 università  che hanno deciso di approfittare dell’ospitalità  ci sono la Manchester Business School, Hult International, London Business School, Cass Business School.
Tra i vantaggi che attirano le super-università  mondiali nelle nazioni emergenti, la disponibilità  di risorse economiche è davvero consistente. UC-Berkeley, per il suo nuovo campus con istituti di ricerca a Shanghai ha ottenuto le seguenti agevolazioni dal governo cinese: tutte le sedi di insegnamento e ricerca vengono costruite con denaro pubblico, a carico della Repubblica Popolare, e l’università  sarà  esentata dal pagamento di ogni affitto per i primi cinque anni. Con l’aria che tira in America, dove si parla solo di tagli, queste sono attrattive insperate. Creando questi campus nei paesi emergenti le grandi facoltà  americane scoprono che il mercato a cui si rivolgono non è solo quello locale. Sono sempre più numerosi gli studenti americani o europei che considerano un’esperienza di studio in Oriente come un vantaggio nel loro curriculum.


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