Egitto, i rgazzi e i generali

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IL CAIRO. Più che un voto è una maratona. Una marcia di resistenza destinata a durare più di sei mesi. Ci vorrà  un bel fiato politico per arrivare a un risultato, a un traguardo democratico che non si riveli un miraggio. Ma questo voto egiziano, il cui svolgimento si annuncia impervio prima ancora dell’esito, deve essere seguito come la tappa di un lungo processo rivoluzionario. È un importante momento dell’irrisolto confronto tra le forze del rinnovamento e quelle della conservazione. La rivolta di gennaio non si è conclusa con l’avvenuta esautorazione del rais; se è riesplosa dieci mesi dopo è perché la posta in gioco è più profonda: è storica e culturale. Il vecchio regime, il sistema politico e sociale in vigore resiste agli assalti della rivoluzione. E le rivoluzioni hanno tragitti lunghi. È in questa prospettiva che va seguita la maratona elettorale che comincia stamane nel più grande paese arabo.
La conclusione è prevista in un ancora imprecisato giorno di giugno: quando, formatisi i due rami del parlamento, eletti separatamente, a distanza di due mesi, e ognuno in tre tempi (nove province per volta su ventisette), gli egiziani sceglieranno infine un presidente. Contando i ballottaggi e un paio di referendum, per approvare la Costituzione e forse per decidere sul potere dei militari, nell’arco di circa duecento giorni, ci saranno quindici o più appuntamenti elettorali.
Troppi, anche per un elettorato paziente come quello egiziano. Il voto è simultaneo alla rivoluzione di piazza Tahrir. Questa è la sua peculiarità . Quello di oggi riguarda la camera bassa, l’Assemblea del popolo, ed è limitato alle grandi città : il Cairo, Alessandria, Assiut, Porto Said. Le altre province andranno alle urne fino ai primi giorni di gennaio. La camera alta (Shura) sarà  eletta tra gli ultimi giorni di gennaio e i primi di marzo. Poi ci saranno i referendum e l’elezione presidenziale. Alla vigilia del primo voto vado in piazza Tahrir, epicentro della rivoluzione. Alcune migliaia di cairoti assiepati danno l’impressione di un accampamento ancora insonnolito. Il sole non è abbastanza alto per riscaldare le sponde del Nilo. La piazza non si presenta come l’arena rivoluzionaria che ha messo in crisi un regime militare, cacciato un rais e gettato il panico tra monarchi ed emiri del mondo arabo. Una piazza dove sono stati uccisi negli ultimi giorni quarantun giovani e feriti almeno un migliaio. E dove hanno perduto la vista decine di manifestanti investiti dai gas nervini.
L’aria di smobilitazione non deve ingannare. La folla riempie la piazza, fino a traboccare nei quartieri vicini, a investire i palazzi del governo e a paralizzare il Lungonilo, nei momenti di tensione. Lo stesso accade ad Alessandria, a Porto Said, ad Assiut. Gli irriducibili di piazza Tahrir in quelle occasioni attirano masse di egiziani di tutte le classi sociali: dagli operai ai professionisti, dagli studenti ai disoccupati. Di primo mattino, in un giorno che non sembra riservare sorprese, senza collera e repressione, a poche ore dal voto, ho l’impressione di essere in una numerosa adunata di anarchici sobri e taciturni. Niente simboli di partito, niente ritratti di leader, niente palchi per gli eventuali oratori.
I giovani disposti a credere nell’elezione ininterrotta promossa dai generali sono pochi. Molti la giudicano una trappola, una specie di terapia di massa tesa a sfiancare la rivolta e a riportare l’ordine nel paese grazie alla guida dei militari. Dopo una notte passata in un sacco a pelo, Wael Abu Hamad, 25 anni, dei quali tre in Inghilterra a studiare economia, dice senza esitare: «È una truffa». Un imbroglio ben programmato perché, anche per la sua durata, l’elezione sarà  facilmente truccata. E i generali cercheranno di dimostrare al mondo che loro sono capaci di organizzare libere elezioni. Lui, Wael, pur essendo indignato, pur denunciando la manovra subdola dei militari, andrà  comunque a votare. Ma poi ritornerà  in piazza Tahrir per mantenere accesa «la fiamma della rivoluzione». E con gli irriducibili denuncerà  gli imbrogli e promuoverà  manifestazioni che smaschereranno il regime.
Ci si perde volentieri tra gli abitanti del grande accampamento di piazza Tahrir. Si esprimono con chiarezza e i loro discorsi sono maturati rispetto a quelli di gennaio. Dieci mesi dopo non si limitano ad esigere che i militari abbandonino il potere. La loro protesta implica una profonda riforma del sistema politico e sociale. Gli obiettivi immediati sono la destituzione del maresciallo Tantawi, ex braccio destro di Hosni Mubarak e adesso capo della giunta militare (il Consiglio superiore delle Forze armate), e il rifiuto del primo ministro da lui designato, il vecchio economista Kamal el Ganzuri, ex capo del governo pure lui di Mubarak. Ma c’è anche l’obiettivo più ampio di riformare la società  dominata dalla classe militare, una casta formatasi nei decenni, che invade tutte le attività  più importanti della vita nazionale: dall’economia all’industria alla stessa giustizia, affidata in larga parte ai suoi tribunali.
I militari hanno destituito in febbraio il loro capo, Hosni Mubarak, adesso imputato, con i figli e una manciata di complici civili, in un processo che sembra impantanato, ma è come se avessero gettato fuori bordo una zavorra, pensando di poter cosi salvare l’essenziale del regime. Vale a dire se stessi. Raccolti nel Consiglio supremo delle Forze armate, composto da una ventina di generali, si sono sostituiti al capo dello Stato. Una specie di presidenza collettiva, contestata, vilipesa, e tuttavia dotata di tutti gli strumenti di un regime autoritario: i mukabarat, i poliziotti (numerosi come gli scarafaggi, dice il giovane Wael di piazza Tahrir), continuano a tenere sotto sorveglianza il paese, come un tempo.
I generali reprimono e poi si scusano. Annunciano che si ritireranno dal potere politico ma chiedono garanzie per conservare i loro privilegi, anche quelli politici. E hanno programmato la maratona elettorale, destinata a rinnovare le istituzioni e la stessa Costituzione, ma non hanno nascosto l’intenzione di collocarsi al di sopra della Costituzione (suggerendo che il paese approvi questo singolare privilegio con un referendum). Hanno altresì chiesto che il loro bilancio rimanga segreto. Quest’ultima esigenza sarebbe giustificata dal ruolo decisivo che le forze armate egiziane hanno in Medio Oriente. Esse sono garanti degli accordi di Camp David (1979), su cui si basano i rapporti tra Egitto e Israele, e di riflesso quelli con gli Stati Uniti. I quali danno ogni anno un miliardo e trecento milioni di dollari all’esercito del Cairo. Un aiuto secondo soltanto a quello elargito all’esercito israeliano. Il recente richiamo della Casa Bianca, che ha invitato con toni asciutti i militari egiziani a trasferire i poteri ai civili, deve avere preoccupato i generali. Anche se essi sanno di essere interlocutori indispensabili alla super potenza, per quel che riguarda la pace mediorientale.
Per la maggioranza silenziosa egiziana i militari sono la spina dorsale del paese. La loro forza risiede in quella larga parte della popolazione. I rivoluzionari di piazza Tahrir raccolgono l’adesione della società  civile, di una qualificata parte della popolazione urbana, ma l’Egitto rurale, prigioniero delle tradizioni e dei richiami religiosi, non ha le stesse reazioni. La principale formazione politica, il Partito della Libertà  e della Giustizia, emanazione della Confraternita dei Fratelli Musulmani, dopo avere partecipato alle grandi manifestazioni di protesta di piazza Tahrir, ha assunto una posizione molto più moderata, e in definitiva tollerante se non sottomessa, nei confronti dei militari. Sui quali conta per far rispettare l’inevitabile successo elettorale dei Fratelli musulmani.
L'”alleanza per la continuità  della rivoluzione”, in cui sono raccolti i partiti di sinistra e i musulmani progressisti, oltre a non pochi cristiani copti, rifiuta il confronto tra laici e musulmani che ha prevalso nella campagna elettorale degli altri partiti, e pone soprattutto il problema della giustizia sociale e del potere dei militari. Ma pur essendo uno dei motori della protesta, può difficilmente concorrere con i Fratelli Musulmani e con la maggioranza silenziosa, in cui sono annidati anche i partiti nostalgici di Mubarak. La maratona elettorale è quindi al tempo stesso un essenziale esercizio democratico e un’abile operazione dei militari. In essa possono infatti dissolversi, sia pur per breve tempo, le forze rivoluzionarie di piazza Tahrir.


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