L’Ue: si paghi per gli errori delle toghe

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BRUXELLES — La Corte europea di giustizia ha emesso ieri una sentenza, 8 paginette in tutto, che probabilmente farà  un certo rumore in Italia. Perché «seziona» la legge italiana sulla responsabilità  civile dello Stato, cioè dei suoi magistrati, e dice in sostanza che quella legge tutela poco i cittadini, almeno quando sono in ballo certi loro importanti diritti protetti dalla legislazione europea (quelli per esempio legati all’attività  sul luogo di lavoro, o alla libera concorrenza fra imprese).
Semplificando brutalmente: qualcuno, dice la Corte, se è stato commesso un errore o un sopruso giudiziario in violazione delle norme Ue, alla fine deve pur pagare. E non può accadere, come invece accade oggi, che né lo Stato né i suoi magistrati debbano rispondere di alcunché se non in due casi. Il primo è quello del «dolo o colpa grave», peraltro tutto da dimostrare. E il secondo, piuttosto contorto ma alla fine efficace, è così sintetizzato dalla stessa Corte: oggi la legge esclude «qualsiasi responsabilità  dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione», responsabilità  «imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado» (Cassazione, ndr), «qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto e da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo». Traduzione alla buona: se il magistrato ha interpretato malamente una norma, e se non c’è «dolo o colpa grave» dimostrata, nessuna responsabilità  civile può essere addebitata né a lui né allo Stato che rappresenta; e nessun indennizzo può essere richiesto. Il principio ispiratore della legge è naturalmente quello di salvaguardare l’indipendenza del giudice. Ma tutto ciò, sentenzia ora la Corte di giustizia Ue dando pienamente ragione a un ricorso della Commissione Europea, non può davvero essere: «La Repubblica italiana… è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità  degli Stati membri per violazione dei diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado». I giudici europei non entrano ovviamente nei dettagli, ma le deduzioni che si possono trarre sono tante. Una su tutte: che d’ora in poi l’ignoranza delle normative europee, sempre possibile in qualsiasi aula giudiziaria di qualsiasi Paese, sarà  più difficilmente giustificata.
Le spese cui è condannata ora l’Italia sono quelle del giudizio. Ma altre, e ben più grandi, potrebbero nascere in futuro se la stessa sentenza venisse applicata nei tribunali. Lo Stato italiano deve fare ora tutto il possibile per mettersi in regola. Non vi sono limiti di tempo precisi, ma certo la giustizia Ue non è pronta ad accettare altre attese decennali, o ventennali. Anche per le conseguenze economiche, e umane, che possono sempre derivare da certe situazioni di confusione giuridica.
Il caso italiano da cui è nata quest’ultima sentenza risale a molti anni fa, è passato negli archivi della giurisprudenza con il nome poco aulico di «causa Traghetti», e racconta però una vicenda drammaticamente esemplare. Una compagnia di traghetti in corsa per aggiudicarsi una certa linea riteneva che la compagnia rivale avesse potuto fissare prezzi più miti grazie a certi favoritismi avuti dallo Stato: pensava cioè che fosse stato violato un suo diritto protetto dalle norme europee sulla libera concorrenza, e per questo si rivolse alla magistratura nei vari gradi di giudizio, vedendosi sempre dar torto. La compagnia finì in fallimento, e il curatore fallimentare sostenne che i giudici avevano dato un’interpretazione a capocchia del diritto europeo. Da qui, il lungo percorso proseguito con il ricorso alla Corte Ue e con la sentenza di ieri. «Che in due parole — spiegano alla stessa Corte — dice questo: se c’è un diritto europeo che crea dei diritti per i singoli cittadini, questi devono essere conosciuti e applicati ovunque, e tutelati ovunque dalle leggi nazionali» .


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