La rivoluzione incompiuta alla prova del voto rivolta contro la “democrazia dei generali”

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Mancano appena sei giorni all’inizio delle elezioni egiziane, fissate per lunedì prossimo, 28 novembre. E c’è chi dubita che quel primo autentico appuntamento democratico nel più grande paese arabo venga mantenuto.
Ma chi può azzardarsi ad annullarlo o a rinviarlo troppo in là ? La violenza degli ultimi giorni potrebbe essere un pretesto: ma la violenza che seguirebbe sarebbe di ben altre dimensioni. La calma auspicata quando si celebra il rito del suffragio universale, non è comunque garantita durante il voto programmato in vari turni destinati a durare settimane, per nominare i due rami del Parlamento. Voto che dovrebbe culminare nelle presidenziali, ancora senza data. Forse nel 2013. L’esplosione della “seconda rivoluzione”, dieci mesi dopo quella di gennaio, conclusasi con la destituzione di Hosni Mubarak, il raìs al potere da trent’anni, più che incertezza crea smarrimento. Morti e feriti non sono un preludio rassicurante.
I militari, detentori del vero potere, hanno dichiarato, a scanso di equivoci, che il sangue versato nelle ultime ore in piazza Tahrir non impedirà  la tenuta delle elezioni, poiché loro, i militari, sono in grado di garantire l’ordine. Sulle sponde del Nilo la “primavera araba” vive i giorni difficili di una democrazia in gestazione che stenta a prendere corpo. La rivoluzione incompiuta si scontra, resiste ai tentativi di restaurazione.
L’annuncio del Consiglio supremo delle forze armate, composto di generali, benché rassicurante sulla tenuta delle elezioni, non ha disinnescato la rivolta. Non ha risposto alla richiesta essenziale dell’ala più intransigente dei manifestanti. I quali chiedono in sostanza ai militari di cedere il potere ai civili, in tempi variabili. I più radicali dicono subito. Alcuni, più precisi, chiedono che il maresciallo Mohammed Hussein Tantawi, un tempo braccio destro di Hosni Mubarak e adesso alla testa del Consiglio supremo, venga destituito sui due piedi da quest’ultima carica. Altri ancora fissano a dopo l’elezione di un presidente (il primo senza uniforme dal 1952), programmata ma senza una data precisa, il passaggio del potere dai militari ai civili. Altri ancora esigono dai generali una rinuncia formale e solenne alla loro pretesa di occupare una posizione “super costituzionale”: vale a dire di non dover dipendere dal potere politico eletto; di avere il diritto di sciogliere le istituzioni democratiche se queste non rispettano i tempi (ad esempio non più di sei mesi per varare la “legge fondamentale”); e comunque di non dover rendere conto del bilancio delle forze armate. Le quali in Egitto sono proprietarie o gestiscono varie industrie, dai frigoriferi al petrolio, dalle catene alberghiere agli ospedali.
Le dichiarazioni volonterose dei generali sono state tante, ma troppo vaghe per placare la protesta. In sostanza non hanno dato garanzie precise su un reale passaggio del potere quando esisteranno istituzioni democratiche. La società  militare, che si è creata e ramificata in sessant’anni, da quando gli “ufficiali liberi” mandarono in esilio re Faruk e proclamarono la Repubblica, non vuole rinunciare alle sue prerogative e ai suoi privilegi. Ha sacrificato alla piazza il suo capo, Hosni Mubarak, adesso sotto processo con la famiglia e i collaboratori più corrotti, ma non intende piegarsi davanti alle richieste più intransigenti di piazza Tahrir. Dove si rifiuta una “democrazia militare”. E si guarda la giunta dei generali come l’espressione di un regime senza il raìs, ma pur sempre un regime, che non ha intenzione di dissolversi.
Negli ultimi mesi i Fratelli Musulmani erano apparsi come i principali interlocutori, se non proprio gli alleati, dei militari. Insieme costituivano una forza senza rivali. L’intesa non mancava di ambiguità . Basta leggere la storia. In più di mezzo secolo la società  militare ha impiccato i Fratelli musulmani, li ha imprigionati, messi nei campi di concentramento con i comunisti, poi li ha corteggiati, tollerati come deputati con etichette di altri partiti, e soprattutto ha accettato la vasta rete di assistenza sanitaria e scolastica che quella confraternita politico-religiosa ha nel paese. Un’organizzazione capillare che le dà  prestigio, in un paese senza welfare.
L’ambiguità  nei rapporti è riemersa, forse temporaneamente, negli ultimi giorni. I Fratelli Musulmani sono stati sorpresi dalla rivolta di gennaio e si sono subito accodati, imponendosi con la loro organizzazione, senza pari nell’Egitto rurale e cittadino. L’emergere di formazioni islamiste radicali (salafite), più concorrenti che rivali, ha creato scompiglio tra i Fratelli ansiosi di dimostrare la loro moderazione e il loro rispetto della legalità , ma anche preoccupati di perdere proseliti e voti. Molti professionisti (medici, avvocati, ingegneri, insegnanti universitari) appartenenti alla confraternita erano presenti anche alla manifestazione di venerdì scorso, quando decine di migliaia di cairoti hanno sfilato sulle sponde del Nilo per chiedere ai militari di rinunciare alla loro pretesa di collocarsi al di sopra della Costituzione, in una posizione superiore alle istituzioni democraticamente elette.
La partecipazione dei Fratelli all’azione di protesta del 18 novembre è apparsa una spettacolare, netta divergenza tra loro e i militari. Ma quando le dimostrazioni sono diventate violente, i Fratelli si sono ritirati da piazza Tahrir. Loro non chiedevano l’immediata rinuncia al potere da parte dei generali, si limitavano a rifiutare la loro pretesa di collocarsi al di sopra della costituzione. Inoltre i Fratelli temevano che la violenza avrebbe ritardato o annullato le elezioni. E sono stati chiari nell’avvertire che la violenza non poteva impedire il voto. Nel caso i militari l’avessero presa come pretesto per ritardare il processo democratico, il paese intero, hanno avvertito, sarebbe insorto.
Con la repressione degli ultimi giorni l’esercito ha senz’altro perduto parte della popolarità  tradizionale. Una popolarità  consolidata dal suo appoggio tattico ma decisivo alla rivolta di gennaio. Esso non è tuttavia visto, adesso, soltanto come una forza di repressione o come un impedimento a realizzare una vera democrazia. Per non pochi egiziani è l’unica istituzione capace di tenere insieme un paese che conta almeno cento milioni di abitanti, molti di più di quelli rivelati dai vecchi censimenti. E di quei cento milioni almeno quaranta sono analfabeti. Da alcuni laici (non dai rivoluzionari di piazza Tahrir) l’esercito è visto come la sola forza in grado di arginare, disciplinare l’ondata di islamica tanto temuta; e al tempo stesso è un’assicurazione per i Fratelli musulmani preoccupati che la loro prevista vittoria elettorale (20-30 o più per cento) avvenga nell’ordine. E che non sia turbata dagli eccessi dei movimenti salafiti.


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