Nuovo Welfare, Proposte (e Coraggio)
Nelle ultime settimane si è intensificato il dibattito sulla crescita, ma meglio sarebbe dire «mancata crescita», del nostro Paese, con conseguente pressante richiesta di ridurre il carico fiscale sui lavoratori e sulle imprese. Due sono le parole ricorrenti pronunciate spesso in modo ossessivo, come un mantra: riforme e risorse. Occorrono più risorse per il welfare, per le donne, per sostenere con ammortizzatori sociali la disoccupazione o per provvedere, quando il lavoro non c’è, un reddito minimo. In un paio di talk show, presenti i rappresentanti di maggioranza e opposizione, le proposte simili, manco a dirlo, hanno trovato tutti d’accordo: conteggiate per difetto costerebbero non meno di 30 miliardi l’anno. Pensate soltanto a dare un reddito minimo di mille euro lordi al mese (meno di 700 netti) a 2 milioni tra giovani e disoccupati (26 e più miliardi l’anno); sul reddito minimo rimando al magistrale articolo di Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera» del 10 maggio 2004, per il resto mi limito ad osservare che per la previdenza sociale (pensioni e assistenza) spendiamo circa 250 miliardi e per sanità e Long term care (Ltc) oltre 130. Insomma su un bilancio di 807 miliardi quasi la metà se ne va in queste tre voci: e si tratta di una contabilità approssimativa perché tutte le attività assistenziali (assistenti sociali, case comunali, infermieri a domicilio e aiuti in danaro) fornite dagli 8 mila comuni italiani non rientrano in questo conteggio. La spesa per welfare supera il 27% del Pil.
Ma siamo sicuri che continuando a chiedere maggiori risorse per il welfare non succeda quello che profeticamente Jacques Delors disse nel lontano 1989 quando paventò il rischio che «l’Europa potesse crollare sotto il peso del proprio welfare»? La risposta dovrebbe essere già nota: più assistenza significa meno sviluppo; lo dice il presidente degli industriali siciliani Lo Bello, lo dicono gli studi sulle «trappole del welfare». Lo sanno bene svedesi e danesi che stanno ripensando il loro welfare e lo si vede dalla riduzione del rapporto spesa sociale/Pil registrato negli ultimi anni.
È ovvio che lo sviluppo non si crea per decreto ma solo se tutti si «rimboccano le maniche»; anche le regole però possono liberare sviluppo.
Evitando di imbarcarci in progetti tanto grandi da divenire poi irrealizzabili, ci limiteremo a elencare solo poche proposte di buon senso.
I lavoratori
Aumentare il reddito dei lavoratori diminuendo le tasse è difficile tanto più che su 41 milioni di contribuenti almeno 27 milioni fanno fatica con le loro tasse a pagare i 2 mila euro pro capite di spesa sanitaria; però può intervenire il welfare integrativo o aziendale. Per esempio si può aumentare la defiscalizzazione del «buono pasto» da 5,29 euro di oggi (fermi a 12 anni fa) a 10 euro; i lavoratori mangerebbero più decentemente e diminuirebbe certamente il sommerso sui pasti. Si potrebbe poi consentire alle imprese, come accade nella vicina Svizzera, di dare un «buono transfer» defiscalizzato da tasse e contributi di circa 8 euro per ogni giorno lavorativo per raggiungere il posto di lavoro, in funzione della difficoltà e distanza dell’abitazione dall’azienda; infine, ma sono solo alcune tra le proposte possibili, se il datore di lavoro volesse dare un aumento di salario in busta paga di 50 euro gli costerebbe al lordo degli oneri fiscali, sociali e contrattuali, oltre 110 euro. Ma con questi 50 euro in tasca il lavoratore avrebbe un potere d’acquisto normale.
Se invece, sull’esempio di Luxottica anziché pensare al solito aumento sindacale proponessimo un beneficio in natura, ad esempio un «pacco spesa» modulato per tipologia di famiglia di 50 euro al mese la situazione cambierebbe radicalmente: l’azienda sosterrebbe un costo pari a 50 euro, ma offrirebbe al proprio lavoratore merce per oltre 65 euro in virtù del fatto che la rivendita non ha fini di lucro e il fornitore (in questo caso le cooperative) praticherebbe un prezzo più basso. Anche in questo caso lo Stato dovrebbe rinunciare alle tasse su 600 euro l’anno per lavoratore, ma verrebbe compensato da una minore evasione.
Se facciamo due conti, su 20 giorni lavorativi al mese il nostro lavoratore disporrebbe di 274 euro più i 50 (che però valgono 65) del pacco spese ogni mese (oltre il 25% in più su salari medi di 1.200 euro al mese) e alle aziende converrebbe questa forma, magari legata a incrementi di produttività piuttosto che un insostenibile aumento in busta paga. E non accade così nel lavoro autonomo e professionale? Le spese di viaggio, vitto e alloggio sono deducibili dal reddito. Perché non lo sono per il dipendente?
Le imprese
Per le aziende altre tre proposte:
a) Il ripristino degli ammortamenti anticipati che, come enunciava la legge n. 825 del 1971 «tendono a soddisfare le esigenze di rafforzamento e razionalizzazione dell’apparato produttivo» e che sono stati eliminati sia dal centrosinistra sia dal centrodestra. Nel nostro Paese il merito non viene mai valorizzato, in questo caso merito sta per dinamicità dell’impresa. Da noi le aziende che siano decotte, in galleggiamento o dinamiche non cambia nulla; stesse liturgie sindacali, stessi contratti e stesse regole fiscali. Prendiamo ad esempio un computer che si può ammortizzare in 5 anni quando la sua vita utile non supera i tre; un arredo in 9 anni ma la vita utile è di solo 5; lo stesso vale per gli utensili che durano meno di un anno e invece devono essere ammortizzati in 3 anni; per le auto e così via.
b) Beni spesabili nell’esercizio: tutti i beni che costano più del vecchio milione di lire del 1999, oggi 516,46 euro, tra i quali iPad, smartphone e portatili, tutti strumenti che hanno consentito l’unico vero aumento di produttività del Paese, devono essere ammortizzati in almeno tre anni (e pensare che sono portatili e soggetti a un notevole grado di usura).
c) Se poi un’impresa vuole costruire un capannone o un ufficio per creare nuova occupazione o per migliorare la produttività , sono dolori. Intanto non si può ammortizzare il terreno perché gli scienziati delle finanze lo ritengono un «bene eterno» e quindi non deperibile. Ma in banca occorre farsi finanziare 600 mila euro (2.000 mq a 300 mila euro al metro) che però, finché l’azienda non rivenderà il terreno sono a fondo perduto. Supponendo poi che si riesca comunque a realizzare il progetto e costruendo l’immobile, l’ammortamento avverrà in 33 anni, con un leasing in 18. Come si fa a chiedere di investire somme ingenti, pagare le tasse e non consentire le opportune deduzioni, mentre l’azienda si indebita con la banca?
E non è questa la sede per esaminare il corpo delle leggi sul lavoro che tra testi e circolari superano le pagine della Divina Commedia.
Occorre maggiore coraggio: consentendo ai lavoratori un recupero salariale equo, premiando le aziende dinamiche anche con il ripristino degli ammortamenti anticipati (attualizzando la cifra di 516,46 euro ferma da oltre 12 anni).
Il maggior reddito spendibile e l’incentivo a nuovi investimenti non potranno che favorire lo sviluppo, aumentando ragionevolmente i consumi e quindi l’occupazione; il che significa in definitiva diminuire gli oneri per welfare e, con i maggiori contributi, stabilizzare l’equilibrio pensionistico.
Sono solo esempi, ma indicano una via diversa: meno assistenza e più incentivo all’intrapresa; il fisco non rimarrà deluso.
* Presidente CTS Itinerari Previdenziali
Docente Università Cattolica
Related Articles
La Francia si blocca, lo sciopero test per Macron e i sindacati
Oggi in piazza. Giovedì di protesta del settore pubblico, ma non solo, contro la riforma delle pensioni
Scuola, il popolo dei precari a vita
Assunti e licenziati nello stesso giorno: noi, tappabuchi a basso costo (la Repubblica, LUNEDÌ, 02 APRILE 2007, Pagina 18 –
I tempi (diversi) di politici e manager
«Viviamo con l’angoscia di un default dell’Italia». Cernobbio: applausi da industriali ed economisti. Esponenti del governo impietriti.