Gli indignati: «Questo è il Palco del popolo»

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Si moltiplicano le tende erette in mezzo ai grattacieli di Downtown «Il nostro campeggio è un luogo di incontro fra persone diverse: lavoratori, pensionati, studenti» NEW YORK
«This is the people’s stage» (questo è il palco del popolo) – proclama un cartello affisso ad uno degli alberi al centro di Zuccotti Park, la piazzetta giardino, ribattezzata dagli attivisti Liberty Square. Intorno ci sono tende di ogni fattura che premono contro sentieri sempre più esili, lungo i quali camminano visitatori armati di piccole macchine fotografiche, smart phone e iPad che spesso inciampano scatenando gli improperi degli occupanti. «Mic check! Mic check!» (prova, prova) grida all’improvviso un ragazzo con un cappellino Yankees. È una delle chiamate del «microfono umano», una tattica usata dai manifestanti per far fronte al divieto di utilizzare megafoni . «C’è bisogno…. di qualcuno… che venga… ad aiutare… in cucina!» – urla due parole alla volta. Ad ogni pausa il campeggio ripete all’unisono l’appello finché alcuni volontari sventolano le mani per far capire che il problema è risolto.
A poco meno di due mesi di distanza dal 17 settembre, il giorno di battesimo di questa ondata di protesta, gli indignati statunitensi non hanno alcuna intenzione di levare le tende erette tra i grattacieli di Downtown – il distretto finanziario di New York – nonostante l’arrivo dell’inverno e l’affiorare dei primi dissidi interni. Siamo a pochi metri da Ground Zero, quello che era diventato il simbolo dell’America neo-conservatrice durante la guerra al terrore, e vicino a cui ora «campeggia» il monumento di un’America anti-capitalista o quantomeno anti-neoliberale. L’America dei 99%: il nome scelto dai manifestanti per esprimere la propria rabbia contro quell’1% dei super-ricchi ed in particolare i banchieri di Wall Street, la sede della borsa più potente al mondo che si trova a poche decine di metri dall’accampamento.
Dalla prima mattina fino a tarda sera tra le tende è un via vai di persone di ogni tipo. Turisti incuriositi dai messaggi e dagli striscioni colorati camminano a fianco di muratori del vicino cantiere della nuova Freedom Tower venuti a dare un’occhiata. Impiegati del distretto finanziario – con le cravatte un po’ snodate per darsi un’aria casual – accorrono con i loro tupperware colmi di insalatine biologiche durante la pausa pranzo per fare una chiacchierata con gli attivisti o leggere un libro della biblioteca di movimento. Vicino all’orribile monumento di metallo rosso che domina la piazzetta si forma un capannello di ragazzi afroamericani per ascoltare i Rebeldiaz, due rapper di origine cilena che lanciano invettive contro i «fottuti banchieri».
Lungo tutto il perimetro del campeggio persone di classi, età , e origini etniche diverse brandiscono cartelli con messaggi anch’essi diversi, ma uniti dall’odio per un comune nemico: i finanzieri di Wall Street che li hanno messi sul lastrico. Sul lato che si affaccia sul monumento per i caduti dell’11 settembre c’è Nick, un idraulico del New Jersey che si trovava tra i volontari di primo intervento dopo l’attacco terroristico. «Sono stato colpito da sindrome auto-immune, ma non mi volevano dare il risarcimento. Adesso un membro del congresso si è interessato della mia situazione». Poco lontano stanno sedute tre signore anziane intente a fare uncinetto. «Se non avessimo speso tutti quei soldi per comprare bombe e missili adesso non ci troveremo in questa condizione» – afferma Laura, 67 anni, raccontando del figlio di un’amica morto in Iraq.
Ogni sera decine di storie di sofferenza e umiliazione trovano sfogo nel dibattito tematico che si svolge in un piccolo spazio al centro del campeggio. «Voi non ci crederete ma io vivo in un ostello per senza-tetto» – afferma Sara, una ragazza trentenne di origine latinoamericana. In effetti se uno la incrociasse per strada la prenderebbe per una impiegata, con quei capelli pettinati con cura, i vestiti stirati, e un paio di occhiali con montatura alla moda. Faceva l’assistente sociale ma adesso è disoccupata. «Non ho i soldi per affittare una casa per me e per i miei figli di 7 e 10 anni» – confessa alla folla prima di cominciare a piangere a dirotto.
«Questo campeggio è un luogo di incontro per persone molto diverse» – afferma Linnea, una ragazza 23enne che studia urbanistica e vive nel Bronx «perché altrove in città  gli affitti sono alle stelle». «Ci sono persone di tutti i tipi: lavoratori, pensionati e studenti. Perché la crisi colpisce tutti». «Nessuno in estate poteva immaginare che in autunno ci saremmo trovati di fronte a un movimento tanto ampio» – spiega Malav Kanuga uno studente di antropologia della City University of New York. «È come se ci fosse una solidarietà  automatica tra persone tanto diverse senza bisogno di rinchiudersi in ideologie o identità ».
Adesso che per il momento sembra venuta meno la minaccia di sgombero, agitata qualche settimana fa dal sindaco Bloomberg, nell’accampamento si parla di come organizzarsi per passare l’inverno. «Nessun problema. C’è un gruppo chiamato Occupy Antarctica che sta lavorando per preparare il campeggio ai mesi invernali» – rassicura Fred uno dei portavoce, indicando una struttura simile a una serra da orto che servirà  per creare uno spazio riscaldato. Ma in molti sono preoccupati dopo che nelle ultime settimane pioggia e neve hanno trasformato periodicamente il campeggio in uno stagno. «Una mattina mi sono svegliata nell’acqua» – racconta Stephanie, una ragazza che è stata nel campeggio sin dai primi giorni della protesta. «Preferirei non finire congelata».
La commissione finanze dell’accampamento avrebbe tra le mani centinaia di migliaia di dollari donati da simpatizzanti abbienti. Ma in molti si lamentano che quei soldi non vengono spesi per rendere più agevole la vita degli occupanti ma per finanziare operazioni politiche che alcuni giudicano stravaganti, come l’invio di una delegazione di 20 occupanti come osservatori alle elezioni egiziane. Peter, un ragazzo visibilmente stravolto dalla dura vita nell’accampamento (e forse pure da qualche canna di troppo) sta seduto sulla scalinata all’entrata di Zuccotti Park con un cartello che recita «occupante in sciopero». «Abbiamo problemi con i bagni e non abbiamo abbastanza da mangiare!» – si lamenta mentre attorno alcuni attivisti lo guardano contrariati. «Come diavolo vogliamo abbattere il capitalismo di Wall Street se non riusciamo neppure a tenere i cessi puliti!».
Com’è già  successo per gli indignati spagnoli e per quelli greci, per non parlare degli egiziani di Tahrir square, i 99% americani si trovano a fare i conti con i problemi logistici di un campeggio di protesta a oltranza. Tanto più per il fatto che le tende continuano ad aumentare visibilmente giorno dopo giorno e ora si rischia il sovraffollamento. Ma a preoccupare di più i manifestanti sono i dissidi che cominciano a serpeggiare tra gli «attivisti» e gli «hippy”, e che esplodono in occasione delle assemblee di gestione. Qualche settimana fa c’erano state polemiche per l’uso continuo di tamburi che aveva suscitato proteste da parte deegli abitanti locali. Negli ultimi giorni il New York Post, il quotidiano scandalistico locale proprietà  di Rupert Murdoch, ha dipinto il campeggio come una terra di nessuno popolata da «drogati, ubriachi e pervertiti».
Passeggiando nell’accampamento si percepisce la presenza di un confine invisibile tra le tende degli attivisti di classe media, e quelle sul lato di Church Street dove si affollano senza tetto e punk. E c’è anche chi, come Nick, un attivista 25enne venuto da San Diego, spera che «l’arrivo dell’inverno assottigli un po’ le fila dei manifestanti, cosicché se ne vadano via quelli che sono qui solo per fare casino». Per Elizabeth, una docente che si occupa di art therapy alla New York University «è vero che ci sono tante persone con problemi di salute mentale, di alcool e di droga. Ma mica possiamo cacciarli via! Anche loro sono parte del 99%».

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CALIFORNIA.  Oakland, la polizia sgombera gli «occupanti»

Infine la polizia è intervenuta in gran forze, a Oakland in California, e ieri ha sgomberato l’accampamento del movimento Occupy Oakland – la versione locale del movimento anti Wall Street ormai diffuso in tutti gli Stati uniti e altrove nel mondo. L’operazione è stata energica. Di prima mattina decine di agenti hanno tirato giù un centinaio tende che da un mese occupavano una piazza centrale della città  della Baia di San Francisco, mentre dall’alto gli elicotteri illuminavano la scena con i riflettori. Prima che l’operazione fosse terminata la polizia ha portato via 12 persone in stato di fermo – mentre intorno una folla di sostenitori e simpatizzanti gridava agli agenti «vergogna, vergogna a voi».
A operazione terminata nella piazza erano rimaste tende afflosciate e oggetti sparsi: la zona è stata prontamente recintata, mentre la portavode della polizia cittadina ha annunciato che ora la piazza è una «scena del crimine» e quindi l’accesso è vietato a giornalisti e chiunque altro.
Quello di Oakland è finora forse il più attivo tra i movimenti Occupy Wall Street in giro per l’America – il movimento che ha già  vinto una battaglia simbolica presentandosi come portavoce della maggioranza, «noi il 99% contro l’1%» di super ricchi, il movimento contro la speculazione finanziaria e lo strapotere di Wall Street. Ma è a Oakland, città  dalla vecchia tradizione sindacale, che è entrato in scena in modo massiccio il movimento dei lavoratori, con la marcia che due settimane fa ha bloccato la attività  cittadine e chiuso il porto. Né quello di ieri è il primo sgombero. I passati interventi di polizia hanno suscitato polemiche (e aumentato la simpatia pubblica verso i manifestanti). E così anche quello di ieri. Il primo segno, poche ore dopo lo sgombero, sono le dimissioni di Dan Siegel, il consigliere legale della signora sindaco Jean Quan: noto avvocato difensore dei diritti civili, Siegel ha definito l’operazione di polizia «tragicamente non necessaria», e ha detto che la municipalità  avrebbe dovuto dialogare di più con gli occupanti prima di mandare la polizia. «La città  ha mandato gli agenti a sgomberare il campo, arrestare gente e potenzialmente fargli male. Ovviamente non siamo sulla stessa lunghezza d’onda. E’ stato un incredibile dimostrazione di forza, solo per togliere delle tende da uno spazio pubblico». La sindaco si è limitata a dire, in un comunicato, che era tempo di mettere fine all’accampamento, anche se, dice, «siamo una città  del 99%. E’ tempo di lavorare insieme sulle questioni della disoccupazione, le case e l’istruzione».
Che finisca è da dubitare. Intanto a new York gli organizzatori di Occupy Wall Street annunciano una «giornata d’azione» per giovedì, con una marcia che, sperano, chiuderà  davvero il distretto finanziario.


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