Pechino alle urne Prove di democrazia in versione cinese

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PECHINO — La democrazia è una cosa allegra. Cinque bandiere sventolano alle dieci del mattino davanti al seggio elettorale: due rosa, due celesti e una gialla. Incombono le torri di vetro di Shangdu Soho, nel cuore del Central Business District di Pechino. Si sale di un piano, sfiorando una grande falce-e-martello. E lì, accanto al centro estetico Donna Bella, che promette decolleté vistosi, si apre la porta che conduce all’urna. Vigilano due poliziotti, non si entra. Esce Dong Na, una giovane contabile. In mano il certificato: «Erano in quattro per tre posti, uno è un mio capo. Ho scelto chi conoscevo, e spero faccia del bene alla comunità ». Niente di più, niente di meno.
Pechino ieri ha votato. Con discrezione, anche troppa, ma ha votato. I leader hanno dato l’esempio, Hu Jintao s’è fatto fotografare. In palio i seggi delle assemblee legislative locali, le sole in cui sia ammesso il suffragio popolare, oltre 21 mila candidati complessivamente per circa un terzo dei posti. Il World and China Institute — una ong nata per monitorare i processi elettorali — stimava che in 14 si siano presentati da indipendenti, come già  a Tianjin, a Canton e altrove. Un fenomeno a macchia di leopardo, alimentato dai social network, capace di irritare il Partito comunista, già  inquieto a un anno dal congresso e sospettoso di tutto quello che prova a sfuggire alla sua giurisdizione. Nonostante piattaforme programmatiche minime e apolitiche (servizi sociali migliori, meno traffico, meno corruzione) gli indipendenti hanno denunciato ostacoli nella registrazione delle candidature, talvolta minacce, fermi di polizia, detenzioni ai domiciliari.
In questo clima Xu Chunliu, giornalista, si è presentato a Dongcheng. Ha fatto circolare il suo nome stampandolo su buste per la spesa, ci ha dato dentro con Weibo, il twitter cinese. Ma ieri mattina, al telefono con il Corriere, era preoccupato: «Preferisco non parlare, non è più il caso». Xiong Wei ha corso ad Haidian, zona delle università , e sul microblog annotava: «Pechino vota. L’inverno è arrivato e se ne andrà . E dopo? La primavera. La primavera della democrazia? (…) Cittadini, andate ai seggi, il potere di decidere è nelle vostre mani».
Il controllo dei meccanismi da parte delle autorità  è pressoché totale. Per votare occorre avere i requisiti necessari e registrarsi e gli elettori hanno le loro liste pubbliche, nomi incolonnati su pannelli rossi. Ogni circoscrizione ha di norma un candidato in più rispetto ai posti a disposizione: benché non espresso dal Partito, capita tuttavia che questo sia indicato da un’unità  di lavoro o un ramo dell’amministrazione. Gli elettori nel seggio della Capital University of Economics and Business presso la torre sghemba della tv di Stato — ad esempio — potevano scegliere fra tre iscritti al Partito comunista e Feng Yan, indicata da un distretto scolastico. Striscioni esortano a «far tesoro dei diritti democratici», il cronista straniero però non sempre è ospite gradito: a Zhongshili (distretto di Dongcheng) viene invitato a sedersi in una stanza, a sorseggiare acqua, magari a fermarsi a pranzo, ma a non fare domande, fino a essere accompagnato e seguito a opportuna distanza.
Li Fan, il direttore del World and China Institute, osserva e consiglia. Sorvegliato speciale, tuttavia lamenta la «scarsa trasparenza delle procedure», consapevole che la sfida degli indipendenti sia un cimento impossibile. «C’erano anche in passato — diceva al Corriere prima delle elezioni — ma pochi se ne accorgevano. Stavolta invece si sono fatti notare grazie ai nuovi media». Ma a parte un isolato premier Wen Jiabao, la leadership ripete che la Cina non abbraccerà  mai il sistema occidentale e che la via cinese non è negoziabile. A Pechino si fa così. La democrazia è molte cose, spesso molto diverse fra loro.


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