Alfano: «Dopo di noi chi oserà  sfidare la casta delle toghe?»

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Eccolo l’antiberlusconismo che divide il Paese, «sentiamo lo stridore e lo scintillare di baionette in mano a donne e uomini di eserciti contrapposti che si avvicinano con idee molto chiare: la pretesa, da una parte, di destituire il capo dell’esercito avversario e, dall’altra, di salvarlo per salvare con lui un tentativo e un desiderio di cambiamento. E mentre l’adrenalina sale per l’avvicinarsi degli eserciti, sale con essa la recriminazione per ciò che l’Italia potrebbe essere e non è. E la recriminazione suscita malinconia».
La mafia uccide d’estate, edito da Mondadori, non è un saggio ma un racconto. La descrizione dei mille giorni vissuti da Guardasigilli è un artificio retorico che serve ad Alfano per presentarsi alla pubblica opinione, ripercorrendo la storia di chi ha fatto della militanza antimafia e berlusconiana la propria ragione di impegno. E se «Angelino» non è un predestinato di sicuro è il prescelto. Il Cavaliere l’aveva già  deciso nella primavera di cinque anni fa, «alla metà  di maggio del 2006», quando — appena sconfitto alle elezioni da Prodi — diede al giovane dirigente di Forza Italia l’incarico di formare un governo ombra: «Questi non durano, cadranno presto e noi dobbiamo essere pronti a prendere nuovamente in mano le redini del Paese con gente fresca e nuova. Fammi un elenco di nomi nuovi, in base alle loro competenze, e attribuisci a ciascuno un ministro cui loro dovranno fare opposizione, preparandosi alla futura attività  di governo. Tu dovrai coordinarli».
Tranne che nelle prime pagine, però, non c’è Berlusconi nel racconto del segretario del Pdl. Questa particolarità  caratterizza il libro e lo rende straniante, abituando il lettore più che alla presenza del Cavaliere alla immanenza delle idee che ne hanno fatto il leader del centrodestra. Berlusconi rimane sullo sfondo della storia di un politico-ragazzino che fa «oh» e si meraviglia. Lo si intuisce dal modo in cui Alfano descrive il primo giorno al ministero con il naso all’insù, dalla dedica della «più bella sala» del dicastero al giudice-ragazzino Rosario Livatino, dall’«emozione» che «avverto» e trasmette quando firma i primi decreti di carcere duro ai mafiosi: «Mi sembrò il compimento della giovinezza antimafia, l’ultimo atto del liceo».
C’è la passione del liceale nelle pagine in cui si nota come dà  del «lei» a Berlusconi e Gianni Letta, da come attende trepidante «l’esame di idoneità » di Napolitano il giorno prima della nomina a Guardasigilli, da come ricorda la sua generazione, venuta dopo quelle del ’68 e del ’77. E se i sociologi l’hanno catalogata come «generazione del riflusso», Alfano la definisce la «generazione della risacca», che in Sicilia però fu la «generazione antimafia», a cui partecipò «quel ragazzo capellone» notato dai magistrati di Palermo durante i dibattiti. Se La mafia uccide d’estate, è perché nella stagione calda siciliana, lunga cinque mesi, si sono consumati gli eccidi di Cosa nostra, «da aprile a settembre», da Pio La Torre a Cesare Terranova e Lenin Mancuso. Da una parte c’è la mafia che toglie la vita e «ci ruba le parole», come «onore, rispetto, famiglia, dignità  amicizia». Dall’altra c’è l’antimafia «che passa anche da un nuovo linguaggio» e si concreta poi nei fatti, nell’inasprimento del carcere duro e del codice antimafia, che Alfano rivendica.
Ma Alfano è il desunto colpevole: «Come può esistere un berlusconiano, antimafioso e anche siciliano?». Ecco la «tara etnica» che gli brucia, assieme a quella ideologica: «Sarei l’angelo custode del presidente del Consiglio. Cioè non mi occupo di giustizia ma di lui, delle leggi che servono a difenderlo». Gli brucia anche «la piccola croce» che si porta appresso, il tentativo di «mascariamento», «la raffinata tecnica utilizzata per distruggere in Sicilia gli avversari politici», e che ha sconfitto grazie anche agli «avversari politici che mi hanno scagionato». È in questo passaggio del libro che la passione giovanile lascia il posto all’abilità  del politico consumato.
Di qui in avanti Alfano si propone come strenuo difensore della linea adottata in materia di giustizia al ministero, e come fiero accusatore degli «intoccabili», che porta sul banco degli imputati con cifre e circostanze. È la «casta dei magistrati» contro cui punta l’indice, la casta che chiama «sedi disagiate» le «sedi sgradite»; la casta dove impera il «nonnismo giudiziario» protetto dal Csm; la casta che si mostra benevola verso le toghe colpite da azione disciplinare per «aver danneggiato l’auto a un collega», per aver «archiviato sul computer materiale pedopornografico», per aver «intrattenuto rapporti e frequentazioni con un mafioso» sostenendo di essersi «infiltrato»: «Dal punto di vista della tipologia degli illeciti, i magistrati sono uguali a tutti gli altri cittadini».
Nel libro sono ricostruite anche sconfitte e incompiute, dalla legge sulle intercettazioni alla riforma costituzionale. Ed è proprio sulla riforma che nel giorno della finale si legge: «Sarà  difficile che un’altra coalizione dopo questo centrodestra, e un altro leader dopo Berlusconi, decidano di sfidare la corporazione dei magistrati».


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