Unicredit, pronto l’aumento da 7 miliardi

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MILANO – Il cantiere della ricapitalizzazione Unicredit è in chiusura. L’ad Federico Ghizzoni ieri ha dato un indizio importante per sciogliere il nodo – da 3 miliardi – del prestito Cashes: «Noi siamo convinti che sia capitale e ci aspettiamo una risposta positiva». A quanto si apprende che i contatti con la vigilanza sono particolarmente serrati, per chiarire l’aspetto agli investitori prima di lunedì 14. Per quella data sono convocati sia il consiglio di amministrazione sia, come ha detto il numero uno del gruppo, i comitati strategico, nomine e remunerazioni.
Il manager non ha fornito anticipazioni sull’ordine del giorno del cda. Ma i lavori fervono per portare davanti agli amministratori sia il piano industriale triennale – che si concentrerà  sulla banca tradizionale, riallineando i costi alla media europea, ciò che potrebbe comportare semplificazioni organizzative e 5mila uscite via prepensionamenti – sia la ricapitalizzazione. A questo riguardo, Mediobanca e Merrill Lynch operano contendendosi il ruolo di global coordinator, e cercano nuovo capitale senza contare i 3 miliardi di convertendo Cashes, che del resto il mercato già  considera Core tier 1. Il problema sorge con Bankitalia ed Eba: già  prima dell’estate Via Nazionale ha respinto la proposta Unicredit di collegare il prestito ai dividendi, e di recente l’autorità  bancaria europea non lo ha conteggiato per sancire il deficit patrimoniale da 7,38 miliardi entro giugno 2012.
Tuttavia, anche dopo la nuova direttiva Crd 4, le chance che Unicredit possa affermare la propria linea sono crescenti. A quanto si apprende, Via Nazionale ha già  ricevuto una nuova proposta, che si appoggia a una recente nota di vigilanza sulla non deducibilità  della “riserva sovrapprezzo” delle azioni di risparmio, qualora venga classificata in modo tale da renderla non distribuibile. Se applicato alle azioni sottostanti i bond Cashes, questo meccanismo permetterebbe di sottrarre dal Core tier 1 solo una minima parte del loro valore, e conteggiare come patrimonio primario il resto. A ore la risposta di Bankitalia, a Piazza Cordusio c’è un cauto ottimismo.
Altra incertezza sgombrata riguarda l’inclusione di Unicredit nella lista delle istituzioni sistemiche (Sifi), che dovranno entro il 2019 dotarsi di un cuscinetto aggiuntivo di capitale tra l’1 e il 2,5%. «Essere dentro la lista Sifi è un riconoscimento per noi e per il paese – ha detto Ghizzoni -. Siamo tra le prime 30 banche al mondo. Non è una sorpresa». E ha aggiunto: «Anche se non ci sono decisioni ufficiali per le singole banche, noi ci aspettiamo di essere nella fascia bassa».
Ma banca e advisor lavorano soprattutto al “nuovo” capitale che – salvo cali apocalittici in Borsa, dove il titolo traballa a 0,77 euro – sarà  chiesto agli azionisti tra otto giorni. Le voci si concentrano su un’emissione fino a 7 miliardi, tutta in opzione ai soci, con sconto di mercato che renderà  comunque necessario abbassare il valore nominale di Unicredit (oggi di 0,5 euro). La diluizione finanziaria sarà  forte, ma ai fini del controllo non dovrebbe cambiare molto perché i grandi soci dietro le quinte sembrano pronti a sottoscrivere. L’incognita riguarda il 7,5% dei libici, che potrebbe non essere opzionato. Gli advisor lavorano perché parte di quei titoli possano andare a investitori stranieri, si fanno i nomi di Qia, il fondo sovrano del Qatar, e del fondo cinese Cic. Un’altra ipotesi di lavoro è la distribuzione del dividendo in natura, come già  avvenuto nel 2009. Tutto è pronto insomma: Ghizzoni e il suo team tra qualche giorno decideranno se accendere le micce del terzo aumento in tre anni. Le sole incognite rimaste sono la Borsa e gli spread. Anche se, paradossalmente, un passo falso del governo Berlusconi potrebbe schiudere la possibilità  di un rimbalzo per la “carta” italiana.


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