Palestina, prove tecniche di stato

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Ramallah. «Abbiamo una patria che è fatta solo di parole», scriveva Mahmoud Darwish, il grande poeta palestinese scomparso un paio di anni fa. Oggi forse quelle parole amare, tristi e senza una speranza nel futuro se non l’ostinazione estrema, non sarebbero più scritte. Fra i marosi della diplomazia internazionale, passo dopo passo, sta prendendo lentamente forma la Palestina, ormai più che un cantiere politico o una speranza appesa a un angolo del cuore per quattro milioni di palestinesi. Prima la richiesta all’Onu di Abu Mazen per il riconoscimento dello Stato lo scorso 23 settembre, su cui a fine mese si pronuncerà  il Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Poi lunedì la battaglia vinta all’Unesco che ha votato a stragrande maggioranza l’ingresso della Palestina come Stato membro, ora l’annuncio che entro qualche settimana ci sarà  richiesta di adesione ad altre 16 agenzie delle Nazioni Unite, prima fra tutte l’Oms, dove i palestinesi vorrebbero sedere a pieno diritto.
Certo agli americani e agli israeliani “la scorciatoia dell’Onu” non è piaciuta e vi si sono opposti con ogni mezzo. Ieri sera il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato dure ritorsioni contro l’Anp come il blocco del trasferimento delle tasse pagate per le merci destinate ai palestinesi (60 milioni di dollari al mese) e l’intensificazione nella costruzione di insediamenti ebraici nei Territori occupati con 2000 nuove case sui terreni oggetto della (ormai ex) trattativa di pace sostenuta da Stati Uniti e Europa. I palestinesi erano coscienti che lo “smacco dell’Unesco” non sarebbe rimasto senza risposta ma sembrano decisi ad andare avanti, la strada del riconoscimento all’Onu come Stato è considerata quella giusta. «Forse non siamo ancora davvero uno Stato, ma possiamo dire che i lavori sono in corso», dice convinto Salah Khalil, il libraio che sta nel centro di Ramallah , «potremmo chiamarle prove tecniche per uno Stato, basta guardarsi attorno per vedere come in questi ultimi cinque anni la situazione sia completamente cambiata».
L’atmosfera ieri nella Muqata, il palazzo presidenziale che era la sede del governatorato britannico ai tempi della Palestina mandataria, era colma d’orgoglio «Gli israeliani dovevano essere i primi a congratularsi con noi, invece…», dice Saeb Erekat, il capo dei negoziatori palestinesi, mentre infila in una cartella i telegrammi di complimenti arrivati a Ramallah dai quattro angoli del mondo.
«Quella all’Unesco è stata la prova del riconoscimento internazionale del diritto del nostro popolo a uno Stato indipendente», osserva nel suo ufficio al secondo piano Nabil Shaath, ex premier e ex ministro degli Esteri, ora consigliere del presidente Abu Mazen. Poi si alza e chiude la finestra per allontanare il fragore dei caterpillar che lavorano sulla collina davanti alla Muqata perché la capitale de facto della Palestina è un cantiere incessante, una frenesia edilizia sta completamente trasformando la skyline della città . Anche perché Ramallah è parte di quel 40 per cento della Cisgiordania dove i palestinesi possono costruire senza bisogno dei permessi israeliani. Spuntano grattacieli avveniristici in vetro e cemento destinati alle Banche arabe che hanno aperto qui sedi di “primo livello”, magazzini, centri commerciali e centinaia di nuovi palazzi destinati ad abitazioni. Fervono lavori anche nella Muqata che ha perso quell’aria di fortino sotto assedio e sta per diventare un vero e proprio palazzo presidenziale con giardini e fontane. Il complesso è stato ampliato e ospiterà  presto sette ministeri e l’ufficio del primo ministro. Già  completato invece il grattacielo per Banca centrale palestinese. Nuove strade, una circonvallazione per aggirare il centro sempre assediato dalle auto. Guardando i titoli della Borsa di Nablus che scorrono sul maxi schermo su un lato di Piazza Manara si direbbe che la Borsa palestinese ha più successo di quelle in altre parti del mondo arabo. Ramallah sta assumendo sempre di più il ruolo destinato a Gerusalemme Est nei piani e nel cuore dei leader palestinesi. Per ora è la capitale futura della Palestina.
Questo boom edilizio e economico è uno dei segni più evidenti della crescita economica della Cisgiordania che è oltre l’8 per cento, la disoccupazione è scesa cento, grazie alla generosità  dei Paesi donatori ma anche alla stabilità  di questi ultimi cinque anni. Il tasso di violenza è crollato e le autorità  israeliane hanno aumentato le tipologie e le quantità  di merci che è possibile importare, ma le decine di check point di “sicurezza” sono ancora l’ostacolo maggiore a un vero sviluppo economico. Ma la questione scottante resta: l’Anp è in grado di gestire la transizione verso uno Stato reale?
Molto è stato detto e scritto sulla crescita economica, meno sulla effettiva capacità  di governare. Prendiamo i cambiamenti nel sistema giudiziario. A differenza di quando c’era Yasser Arafat, la polizia palestinese non può più effettuare fermi arbitrari, detenere una persona senza portarla davanti a un giudice che ne convalidi l’arresto. E il numero dei giudici – grazie a un programma sostenuto dall’Unione Europea – è in aumento. I sondaggi di opinione indicano che il senso di sicurezza nelle grandi città  è cresciuto e il miglioramento è sensibile anche nelle strade al visitatore distratto. Si esprime nella forte diminuzione della criminalità  e nelle chiamate dei cittadini alla polizia palestinese. I civili armati, che erano una presenza regolare quasi a ogni angolo di strada, sono per la maggior parte scomparsi, alcuni arrestati dall’esercito israeliano, altri dalla sicurezza palestinese.
L’Onu, la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno annunciato all’inizio di quest’anno che l’Anp è in grado di gestire uno Stato, con strutture moderne e dinamiche. Certo tutte queste istituzioni hanno esaminato solo la Cisgiordania, dove l’Autorità  nazionale palestinese mantiene uno stretto controllo grazie ai 45mila membri delle sue varie forze di sicurezza. Diversa la situazione a Gaza, dove Hamas controlla tutto dal 2007 e dove proliferano gruppi e gruppetti estremisti sempre ben armati. Anche a un livello superficiale l’Anp non sembra in grado di governare la Striscia, né Hamas è disposto a cedere i suoi poteri e rinunciare alle sue forze di sicurezza. Il destino di Gaza è una delle grandi incognite.
Lo sforzo principale del premier dell’Anp Salam Fayyad – ex dirigente della Banca Mondiale – si è concentrato sulla Cisgiordania, con infrastrutture e sanità  al primo posto. L’Anp, il cui bilancio di quest’anno è di quattro miliardi di dollari (di cui uno di aiuti esteri), ha investito una grande quantità  di denaro per ristrutturare scuole e aprirne di nuove, oltre a pavimentare di tutte le città . Ramallah oggi può vantare un centro di cardiologia di primo livello, un ospedale pediatrico e una banca del sangue, che prima non esisteva. C’è anche la Palestine Football Association, ospitata in un palazzetto moderno non distante dal Parlamento che riunisce le 12 squadre che partecipano alla Premier League della Palestina. Il suo presidente? Un ex guerrigliero che è stato anche capo dei servizi segreti palestinesi ma che ora si è convertito alla “non violenza”. «Abbiamo una terra che è nostra e un presidente», mi spiega convinto il gestore dello “Stars&Bucks Café” che si affaccia su Piazza Manara, «istituzioni, strutture, scuole, università , una nazionale di calcio, il nostro inno nazionale. Uno Stato lo siamo già  da tempo, solo qualcuno non l’ha ancora capito».


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