Ellen Sirleaf: «Il futuro è delle donne E noi cambieremo il volto dell’Africa»
A sei anni di distanza, la neo Nobel per la pace Ellen Johnson Sirleaf, ex dirigente della Banca Mondiale e già presidente della sezione africana del programma di sviluppo dell’Onu, mostra tutta la determinazione a prendersi quello che ancora le manca: la riconferma per un secondo mandato, al ballottaggio dell’8 novembre. Per spuntarla, la leader africana apprezzata a livello internazionale per aver saputo mantenere stabilità in uno Stato annientato da 14 anni di guerra civile, riducendone il colossale debito nazionale, non ha disdegnato l’appoggio dell’ex «signore della guerra» Prince Johnson, arrivato terzo al primo turno.
Settantatré anni domenica prossima ed energia da vendere, Ellen Johnson (Sirleaf è l’ex marito, padre dei suoi quattro figli) è indaffaratissima. Chi sperava di poterla incontrare domenica scorsa a Rimini alle giornate internazionali del Centro Pio Manzù — che l’aveva premiata nel 2006 con la medaglia d’oro del presidente della Repubblica — è rimasto deluso: Ellen ha spedito un videomessaggio, presa com’è da una campagna elettorale in salita.
«La mia presidenza è stata un grande successo — dice al Corriere dal suo ufficio a Monrovia —. Per il fatto di essere donna ho portato una quota di sensibilità in più. Grazie al mio istinto materno, siamo stati in grado di rispondere a donne e giovani. Non a caso mi chiamano “Mama Ellen”. Nel mio Paese mi considerano la madre della nazione».
C’è chi le rimprovera di non aver fatto abbastanza contro la povertà e una disoccupazione al 90%.
«Quando mi sono insediata ho trovato un Paese ridotto in macerie, c’è voluto tempo per mobilitare risorse. Ora il mio primo pensiero è combattere la disoccupazione, puntando su istruzione e formazione, soprattutto per le donne. Il futuro dell’Africa come motore della crescita economica globale è legato a filo doppio alla condizione femminile».
Come stanno le africane oggi rispetto a 5-10 anni fa?
«Decisamente meglio. Persino nelle campagne le donne iniziano a partecipare alle decisioni che riguardano la loro vita. Le figlie di famiglie povere, a cui un tempo era negato l’accesso all’istruzione, oggi vanno a scuola. Nelle classi ci sono quasi lo stesso numero di bambini e bambine. Non sono più una rarità in Africa le donne che raggiungono i più alti livelli di istruzione e che occupano posizioni da leader. Come primo presidente donna democraticamente eletto in un Paese africano io sono un esempio di questo percorso evolutivo. Ma dobbiamo ampliare la rappresentanza femminile: soltanto il 15% del nostro Parlamento è composto da donne».
Cosa prevede per i prossimi 10 anni?
«Mi creda, le donne cambieranno radicalmente il volto dell’Africa nel prossimo decennio».
Via i dittatori post coloniali, avanti le signore presidente. Però per ora lei è l’unica.
«Ce ne saranno almeno altre due o tre».
Sta pensando a Edith Nawakwi in Zambia o Ngozi Okono-Iweala in Nigeria, premiata l’altro giorno dal Centro Pio Manzù?
«Preferisco non fare nomi. Per scaramanzia. Comunque la bassa rappresentanza delle donne in politica non è una prerogativa africana. A livello globale la percentuale di donne nei parlamenti arriva al 18-19%. Pochi Paesi hanno raggiunto la massa critica del 30%, per lo più grazie alle quote rosa. Ma non c’è solo la politica: l’Africa prospererà anche grazie alle donne professioniste nella società civile».
Cosa può rallentare questa «avanzata»?
«Un ostacolo è quello del passaggio alla scuola superiore: ancora troppe donne si fermano prima per via dei matrimoni precoci e delle gravidanze sotto i vent’anni».
Ci sono diversi modi e stili di essere leader anche per una donna. Lei quali preferisce? Con quali leader ha rapporti privilegiati?
«Mi piace molto Angela Merkel. Ho visitato il suo Paese e lei il mio. Ci siamo incontrate più volte. È una leader molto forte, esemplare. Apprezzo anche Hillary Clinton. Ognuna di loro è innanzitutto un leader a cui è capitato di essere donna. Anche noi abbiamo personalità e approcci differenti, come succede tra gli uomini. A parte una cosa: la maggioranza delle leader, forse non tutte, tende a portare una quota extra di sensibilità nel proprio lavoro per il fatto di essere madre. Questa è l’unica differenza».
Considera il suo premio Nobel un riconoscimento per tutte le africane: possono diventare un modello per le occidentali?
«Le donne africane e dei Paesi in via di sviluppo hanno un fardello maggiore sulle spalle: scarsa istruzione, forti disuguaglianze, violenze sessuali. Tuttavia queste donne, anche in circostanze dure, tengono ferme le loro posizioni, combattono e mobilitano persone. Credo che il premio Nobel a me e alla mia compatriota sia un esempio del riconoscimento che anche in situazioni difficili possiamo arrivare a un livello di leadership esemplare. Lo stesso accade in America Latina e Asia: non a caso il Nobel è andato anche a una yemenita».
L’emancipazione delle donne non è una forma di rivalsa sugli uomini ma di co-operazione. Le donne in Africa e nel mondo sono pronte per questo?
«Le donne sono molto pronte e ora pure gli uomini lo sono. Le giovani del 21° secolo, da qualsiasi posto provengano, vogliono la stessa cosa: contribuire alla società in modo stimolante, sentirsi realizzate, apprezzate. Si ritrovano così a lavorare insieme agli uomini in diversi ambiti. E gli uomini si stanno abituando a considerarle partner e stanno capendo che non possiamo vincere le sfide globali senza coinvolgerle».
Considera l’avanzata economica della Cina in Africa una forma di «neo-colonialismo»? È preoccupata?
«Per nulla. Abbiamo maturato la capacità di negoziare con qualsiasi Paese, compresa la Cina. E sicuramente sapremo proteggere i nostri interessi».
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