L’allarme delle donne sui diritti acquisiti «Ma non saremo il nuovo Afghanistan»

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Ma io le rispondo: aspettiamo di vedere quanto è consistente il risultato. E poi quello che mi interessa sapere è: quante donne sono state elette in Parlamento? Sono più o meno di prima?». Parla con forza e con passione Chellouche, deputata algerina e vicepresidente della Commissione dei diritti della donna nei Paesi euromediterranei dell’Assemblea parlamentare dell’Unione per il Mediterraneo. La incontriamo a Roma nella splendida cornice della sala Mappamondo della Camera dei deputati dove si svolge la conferenza su «Le donne agenti di cambiamento nel Sud del Mediterraneo», organizzata dalla deputata Deborah Bergamini, presidente del Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa. «Conosco la situazione in Tunisia — spiega al Corriere — e secondo me è molto remoto il rischio che le donne possano tornare indietro. I loro diritti vengono da lontano. Nel 1956, con l’indipendenza il primo presidente tunisino Habib Bourguiba affermò subito i diritti delle donne e li incluse a chiare lettere nel codice di famiglia. Poi Ben Ali ha continuato sulla stessa strada: la democratizzazione dell’insegnamento, l’accesso al lavoro, il ruolo paritario all’interno della famiglia. Parliamo di una società  ben organizzata con un alto livello di maturità ».
Ma per qualcuno in sala, dove si confrontano diverse protagoniste della Primavera araba, il rischio di islamizzazione è concreto. La pensa così Sondes Ben Khalifa, giornalista e blogger tunisina, capelli neri corti, lo sguardo grintoso. «Io non ho votato per Ennahda perché non mi piacciono i partiti unici, penso sia meglio una coalizione dopo tanti anni di Ben Ali — spiega al Corriere proteggendo come di riflesso il pancione (è al sesto mese di gravidanza) —. È vero che in campagna elettorale i loro candidati hanno proposto un Islam moderato, limitando gli interventi agli stili di vita incentrati sulla visione musulmana. Ma questa è in ogni caso la direzione verso cui andremo».
L’algerina scuote la testa. La sua visione è molto diversa. «Non siamo nel Medio Evo — dice — ma nel 2012, ci sono convenzioni internazionali che sono state firmate. Ennahda dovrà  prenderne atto. Non credo si possa così facilmente tornare indietro. E sono convinta di una cosa: la Tunisia non sarà  mai l’Iran o l’Afghanistan».
L’Occidente, però, ha gli occhi puntati su Rachid Ghannouchi e le sue prossime mosse. Soprattutto dopo l’assalto alla sede di Nessma Tv da parte di gruppi islamici radicali. «Cosa spaventa così tanto voi occidentali? — dice Chellouche infervorandosi —. I vostri partiti democristiani minacciano forse la laicità  dello Stato? Anche la storia del velo non la capisco. In Ennahda, come ovunque, ci sono donne che lo portano e altre che non lo portano. Non mi sembra che sia questo a fare la differenza. In democrazia un partito islamico ha diritto di esistere. O no?».
E poi, è l’altro argomento, la Tunisia è un Paese che si sostiene con il turismo. «A differenza dell’Algeria che ha anche il petrolio, loro non hanno altro. Ammesso che il piano sia quello di islamizzare veramente la società , non credo che i dirigenti di Ennahda vogliano rovinarsi l’immagine all’estero. E di cosa vivranno dopo?».


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