In fila per scegliere la democrazia “L’Occidente non tema l’Islam”

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TUNISI.  Nello stadio alla periferia di Tunisi, all’ultimo comizio di Ennahda, in questo week-end ci stiamo scambiando i ruoli: non è il giornalista a interpellare i militanti ma sono loro, i futuri elettori islamisti, a volergli parlare: per spiegare la loro scelta e rassicurare l’Europa tramite la sua stampa, ma anche per rassicurare se stessi.
Come se prima di andare alle urne avessero voluto verificare che la loro scelta non romperà  i ponti tra la Tunisia e gli occidentali, e non frenerà  l’afflusso dei turisti dai quali dipendono le loro buste paga. In pochi attimi, all’interno del comizio si vanno formando e riformando di continuo vari comizietti dai toni cortesi e appassionati. Un giovane padre di famiglia spiega che voterà  Ennahda perché vuole «un’economia come dico io». Sarebbe a dire? «Accanto alle altre banche e agli altri alberghi – mi risponde – vorrei vedere banche islamiche che non chiedano interessi, e alberghi islamici per poter portare i miei figli al mare, al Sud, senza avere intorno gente ubriaca e donne … – si ferma a cercare la parola – quasi nude».
«Ogni società  ha i suoi tabù – spiega un altro. In Europa avete il tabù dell’Olocausto. Noi abbiamo quello dell’indecenza. I tabù vanno rispettati». Un cinquantenne: «Non vi dovete preoccupare. Abbiamo sofferto troppo della mancanza di libertà  per voler imporre una dittatura; ma vogliamo che sia rispettata la nostra identità  araba e musulmana. Il discorso sembra non piacere troppo a un imberbe erudito: «La libertà  deve avere un limite. Non si può insultare la religione. E la democrazia … vuol dire il potere al popolo. Ma per noi il potere spetta a Dio». Volete una teocrazia come in Iran?
La domanda li offende, e rispondono a raffica: «Perché dobbiamo sempre giustificarci? Non vogliamo un regime di tipo iraniano, lo abbiamo detto chiaramente!», ribatte uno; e un altro rilancia: «Perché parlarci dell’Iran, quando guardiamo alla Turchia?» Il tono è ora risentito, concitato. Un giovane dirigente che ha tutta l’aria di un futuro ministro richiama alla realtà  quell’ignorante di giornalista: «Ma lei è in ritardo di trent’anni! Il mondo è cambiato, la Tunisia è cambiata. Una teocrazia non sarebbe più possibile, questo Paese la rifiuterebbe. Ma abbiamo bisogno di un’identità , proprio come voi, o come la Turchia. «
Un’oratrice tutta capelli, senza neppure un’ombra di velo, trascina con la sua eloquenza il pubblico del comizio di Ennahda, il partito della destra tunisina: un popolino conservatore, fatto di piccoli funzionari e commercianti, non miserabili ma molto modesti, alla ricerca di punti di riferimento, che non vorrebbero vedere le loro figlie andare in giro in minigonna. Quella di Ennahda è una destra europea d’anteguerra, devota, tradizionalista, reazionaria, per nulla illuminata, ma tutt’altro che fanatica o tentata dalla violenza – tanto che i pochi veri integralisti tunisini hanno preso le distanze da questo partito giudicandolo troppo laico.
Non è Al Qaeda. Non è il «fascismo verde». È un mosaico, un partito acchiappatutto in grado di attirare questo popolino, ma anche molti giovani tecnocrati ambiziosi; e soprattutto ben consapevole che la jihad, la guerra santa, è passata di moda, e che oggi il mondo arabo è più desideroso di continuare a sbarazzarsi dei suoi tiranni che di andare a evangelizzare l’Occidente a colpi di bombe. In Tunisia si sta costituendo uno scacchiere politico largamente bipolare: di fronte a questa destra, la moltitudine dei partiti laici forma di fatto un vasto centro-sinistra, che va dagli ex comunisti ai centristi.
Alcune ore dopo, un comizio laico raduna un pubblico di tutt’altro genere: una differenza che dice tutto. Mentre a destra si parla arabo con un po’ di francese, a sinistra la lingua è il francese frammisto all’arabo. I veli e i foulard, numerosi dall’altra parte, qui sono rari. Nelle famiglie laiche abbondano gli universitari, i farmacisti, i medici e gli avvocati, e il livello di vita è nettamente più alto. La differenza è quella che passa tra il ceto medio inferiore e superiore; qui non c’è da riconquistare un’identità  nazionale.
Credenti o meno, i laici sono perfettamente a loro agio in un mondo globalizzato. Per questi tunisini, la loro terra è uno degli Stati di un’unione già  anticipata dalla loro cultura: quella delle due sponde del Mediterraneo. A fronteggiarsi sono due schieramenti che tutto concorre a dividere. Ma ieri, gli uni e gli altri hanno votato con lo stesso fervore. E da entrambe le parti la parola «elezioni» non si pronunciava più in arabo ma in francese: «le vote», come a sottolineare che stavolta si fa sul serio: vere elezioni, libere e pluraliste.
È stato bellissimo, un momento forte, di profonda emozione. Ma domani?
In attesa dei risultati, in Tunisia si contrappongono quattro visioni del futuro. A sinistra, una minoranza vede nero, convinta che queste elezioni richiuderanno una parentesi di libertà : e consiglia di «bere un ultimo whisky e mettersi in bikini, prima che lo proibiscano», preparandosi all’esilio, in Europa o in patria. Assai meno preoccupata, la maggioranza dei laici non crede che gli islamisti possano sottrarre di nuovo la libertà  ai tunisini, e neppure rischiare di rovinare il Paese facendo fuggire i turisti; ma tentenna tra due diverse tattiche.
La prima postula la formazione di un governo di unione nazionale con gli islamisti, per non lasciarli con le mani libere qualora ottenessero la maggioranza dei seggi; e se così non fosse, perché non abbiano il monopolio dell’opposizione in un periodo economico inevitabilmente arduo; oltre che, in ogni caso, per acuire le loro contraddizioni. L’altra esclude invece qualunque alleanza con gli islamisti, maggioritari o minoritari che siano, per non dover cedere in nulla nei loro confronti, e per potersi preparare all’alternanza nel momento in cui le difficoltà  sociali avranno ragione della loro popolarità .
Quanto a Ennahda, i suoi dirigenti vogliono ad ogni costo l’unione nazionale, perché non hanno mai dubitato, neppure per un secondo, di poter conquistare una maggioranza, soli o insieme a piccole formazioni; ma temono che un governo islamista si trovi a fronteggiare troppe opposizioni, nazionali e internazionali. È la democrazia – ma per il momento tutt’altro che pacificata.
Traduzione
di Elisabetta Horvat


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