Né Renzi né D’Alema, né Veltroni nel Pd arrivano “i ricostruttori”

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    BOLOGNA – Non rottamatori: ricostruttori. Non sopportano D’Alema e Veltroni, non reggono nemmeno il «personalismo» di Matteo Renzi. Pippo Civati e Debora Serracchiani, nouvelle vague Pd, hanno scelto per la loro convention Bologna, «una città  laboratorio». Contestano ma non rompono, sperano che oggi arrivi Pierluigi Bersani e proclamano «un culto della personalità » per Romano Prodi. Entusiasmo diplomatico: non ci saranno né il segretario del Pd, né il fondatore dell’Ulivo, i cui sodali principi, Arturo Parisi e Giulio Santagata, sono annunciati alla convention assai più hard il 28 ottobre nella Firenze del rottamatore Renzi. «Io e lui non saremo i D’Alema e Veltroni del futuro. Anche perché non sapremmo chi scegliere, chi fa D’Alema e chi Veltroni» dice il consigliere regionale lombardo Civati, che ha preso le distanze dal sindaco di Firenze dopo un pezzo di strada insieme.
I ricostruttori si sono riuniti a Bologna, per ragionare su «Il nostro tempo» e il loro futuro, in un tendone strapieno fino a tarda sera e che riapre oggi, in piazza Maggiore. Cinquecento persone nei momenti di stanca, 1.200 per molte ore. «A me la parola rottamatori non è mai piaciuta- ha esordito Debora Serracchiani – In questo momento ci chiedono di ricostruire l’Italia, non di affossarla». Nel gioco di equilibrismi, Civati lancia anche un avvertimento sulla scelta del candidato premier: «Se c’è Bersani, il Pd vota per Bersani. Invece, se ci saranno primarie alla francese, vedremo come dare il nostro contributo». Ovvero, se non ci si accorda bene, alle elezioni primarie ci sarà  un rappresentante dei quarantenni contestatori. Rottamatori o ricostruttori. Il presidente del consiglio della Regione Emilia-Romagna Matteo Richetti, che ieri era a Bologna e il 28 sarà  a Firenze, amico di Renzi e ponte verso i ricostruttori, attacca: «Le primarie non possono che essere aperte. Se non lo sono, allora i partiti si assumono le responsabilità  di selezionare la classe politica, ma in questo caso si impedisce agli elettori di potersi esprimere».
«Prossima Fermata Italia» si chiama il rassemblement di Civati e di Debora Serrachiani, eurodeputato con mare di preferenze dopo l’attacco ai vecchi capi del Pd, segretaria del Friuli. Ieri sono stati salutati dal presidente della Regione, Vasco Errani, e dal segretario del Pd, Stefano Bonaccini, che hanno onorato chi li ha invitati e insieme definito Bersani il portatore del «progetto giusto», e dal sindaco Virgilio Merola, meno legato alle tradizioni bersanian-prodiane.
Grande star il napoletano Luigi De Magistris. Ovazioni per il romano Nicola Zingaretti, vissuto come il successore di Bersani. «Evviva a Civati e Serracchiani, – ha scaldato la platea – perché hanno dimostrato che è possibile discutere, ma anche unire e innovare. Un grande elemento per un movimento che si è troppo lacerato negli ultimi tempi». Una presenza coraggiosa quella di Rosy Bindi. Oggi tocca a Dario Franceschini e al toscano Enrico Rossi. Civati ha insistito sulla necessità  di mandare a casa tutti i parlamentari dopo al massimo tre mandati, il renziano Richetti li ha abbassati a due. La presidente del Pd Bindi ha innalzato la storia: «Nessun partito seleziona la propria classe dirigente con una applicazione formale della regola e senza riservarsi uno spazio di discrezionalità  politica», altrimenti non avremmo avuto Enrico Berlinguer e Aldo Moro. «E Napolitano non sarebbe dov’è se fosse stato consegnato all’oblio dopo tre mandati. Serve rinnovamento, ma anche meriti e competenza».
Né Civati né Richetti hanno mostrato di ascoltarla, uno ha citato Ciampi, per pochissimo in Parlamento, l’altro ha sparato: «Non prendiamo più in giro gli elettori molto sensibili su questi temi».
La platea era stile Michele Santoro, movimentista e mobile, diversissima e molto più giovane di quella che due giorni fa a due passi dal tendone aveva ascoltato Massimo D’Alema ricordare Pci e Dc. Civati e Debora Serracchiani hanno imitato Fabio e Saviano. «Vado via se cominciamo a litigare il giorno dopo le elezioni», «Resto se combattiamo il benedetto conflitto di interessi».


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