In Patagonia. Ultima corsa sul treno della steppa

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Sapevamo che la Trochita partiva da El Maitén il martedì con patagonica precisione, fra le otto del mattino e mezzogiorno, e che dopo aver raggiunto Esquel ritornava il giovedì, mettendosi in marcia con identica puntualità  per ripercorrere al contrario i trecentocinquanta chilometri a cui erano stati ridotti, dopo le privatizzazioni e la morte delle ferrovie argentine, gli originari millesettecento del Patagonia Express.
Quella mattina la stazione appariva stranamente deserta. Da quanto ci risultava, il vecchio treno continuava a essere l’unico mezzo di trasporto per gli abitanti di El Maitén che dovevano andare a Esquel a comprare beni di prima necessità , a farsi vedere dal medico o a lottare contro la burocrazia. La biglietteria era chiusa e così cominciammo ad aggirarci per la stazione senza incontrare nessuno, finché non arrivammo davanti all’officina e sentimmo la musica di una radio e delle voci. Era un capannone enorme e là , fra tonnellate di metallo arrugginito, una locomotiva a vapore che mostrava parte delle sue viscere d’acciaio e tre vagoni di legno, scorgemmo un gruppo di uomini vestiti con la classica tuta blu dei meccanici.
«Cosa raccontate di bello, ragazzi?» ci salutò uno di loro vedendoci. Rispondemmo al saluto e subito fummo invitati a bere mate e a mangiare pane e formaggio.
«Possiamo sapere cosa vi porta da queste parti?» chiese un altro.
«Il treno. Ci hanno detto che partiva oggi per Esquel». Il nostro piano di lavoro per quel giorno era abbastanza semplice: il mio socio avrebbe fatto il viaggio a bordo, scattando foto in interno, mentre io lo avrei seguito in automobile. Saremmo rimasti a Esquel fino al giovedì e poi saremmo rientrati al contrario, io in treno riempiendo di appunti la mia Moleskine, e il mio socio in macchina, scattando foto in esterno.
«È vero. Partiva oggi, ma non è partito e non partirà » dichiarò uno dei meccanici.
«E quando parte?» domandammo.
«Questo non lo sa nessuno. È charteado» spiegò uno dei più giovani.
«Charteado da chartear?» indagò il mio socio.
Sì, da chartear, un nuovo verbo maledetto derivato a sua volta da charter. Un’associazione di oziosi milionari texani amanti delle ferrovie a vapore avevano charteado il Patagonia Express per un periodo indefinito, senza curarsi del fatto che gli abitanti di El Maitén, Esquel, à‘orquinco e Leleque sarebbero rimasti senza il loro unico mezzo di trasporto. Erano ormai undici giorni che la Trochita era in mano a quei turisti e i ferrovieri, senza nascondere la loro rabbia, cercarono di consolarci suggerendoci una soluzione.
«Oggi arriva uno di quelli. Credo che sia cubano o dominicano, è il loro interprete. Parlate con lui e forse vi lasceranno salire sulla Trochita» disse Marcelo. Decidemmo di aspettare l’interprete chiacchierando con il gruppo. Come tutti i patagoni, ciascuno di loro aveva qualcosa da raccontare, ma discorrevano lentamente, come per non dare importanza a quello che dicevano.
«Avete visto la locomotiva che stiamo riparando? È un gioiello, una Maffei 350, tedesca, costruita nel 1915. Non ci sono più macchine del genere in nessun posto al mondo. Ne abbiamo due e sono parte della storia della Trochita». […]
L’arrivo di un insolente fuoristrada con luccicanti paraurti cromati e fari sul tetto spense l’allegria nel capannone. L’autista faceva anche da interprete e parlava con un inconfondibile accento cubano. Con un gesto interruppe le dimostrazioni di servilismo del capostazione e, indicando il mio socio che in quel momento scattava qualche foto alla vecchia locomotiva tedesca, puntualizzò: «Le avevamo detto che, finché il treno era nostro, non volevamo attorno nessun giornalista».
Avevo intenzione di tranquillizzarlo spiegandogli che non eravamo giornalisti, solo due viaggiatori che passavano per caso da lì, ma Marcelo fu più svelto: «Sono amici miei, volevano vedere l’officina e li ho invitati. E poi il treno voi l’avete soltanto charteado. Non è di vostra proprietà ».
«Vogliamo salire sul treno, fare qualche foto, tutto qui. Ci dai una mano?» domandò il mio socio.
Il cubano ci osservò con attenzione prima di rispondere. «Per cinquemila dollari vi portiamo alla prossima stazione. Solo andata». La stazione successiva era a una trentina di chilometri, un po’ meno di un’ora di viaggio sulla Trochita.
«Allora dì ai tuoi capi che vadano a farsi fottere, solo andata» aggiunse il mio socio nel suo tono più gentile. […]
«Be’, siamo rimasti senza treno» osservai. Bevemmo il mate in silenzio, fumammo una sigaretta. Il mio socio chiese se poteva scattare qualche foto all’officina e i ferrovieri acconsentirono con entusiasmo.
«Ragazzi» dichiarò Marcelo servendo qualche bicchiere di vino, «voi siete venuti a fotografare la Trochita e la fotograferete».
Il mio socio e io ci guardammo decisi ad accettare qualunque cosa ci proponessero, perché a sud del 42° parallelo la fiducia nasce senza mezzi termini, senza ambiguità  né goffi richiami alla prudenza.
«Vi aspetto domattina presto, alle sette, al campo da calcio. E portate qualche soldo per comprare la nafta» suggerì Marcelo.
Il resto del pomeriggio lo passammo a visitare El Maitén, prendemmo alloggio in una pensione dai letti duri e al tramonto andammo a mangiare in un ristorante che ci sedusse col suo nome, Patagonia Express, e ci rimpinzò con uno dei migliori matambre che avessimo mai assaggiato. Poi ci sedemmo in un parco a guardare le migliaia di stelle che illuminano il cielo della Patagonia. […]
Come in tanti altri paesi delle lontane province del Sud, a El Maitén la gente aveva l’abitudine di sedersi dentro la stazione a guardar passare il treno. È un’usanza che conferma l’esistenza del tempo e dell’universo: se il treno è passato vuol dire che è partito da un posto e va in un altro. Il mio socio e io bevevamo il vino osservando le stelle, El Maitén era immersa nel buio e in qualche angolo della steppa i sequestratori della Trochita dovevano lamentarsi della scomodità  dei vagoni mentre dalla sua dignitosa umiltà  di immaginetta sbiadita la Madonna di Lujà¡n doveva guardarli con occhi ancora più tristi del solito, perché la tristezza è l’unica cosa che lasciano i vincitori al loro passaggio.
Il giorno dopo alle sette, interrompendo una partita di calciatori mattinieri, andammo da Marcelo, che ci aspettava accanto al suo vecchio ma impeccabile 113 biplano Curtiss Falcon. […]
Dopo aver sorvolato per dieci minuti la steppa seguendo i binari del treno, avvistammo la Trochita. Il vecchio espresso patagonico avanzava lentamente, una grossa scia di fumo usciva dal comignolo della locomotiva e subito veniva dispersa dal vento. Dalla pianura infinita, il vecchio treno ci faceva segnali di vapore e fumo, ci invitava ad avvicinarci a lui, amico dai muscoli di ferro e dal cuore di fuoco. Volammo sopra il treno, accanto al treno, di fronte al treno, lo seguimmo quasi attaccati ai fianchi nelle due direzioni, mentre i padroni provvisori della Trochita erano passati ai gesti osceni. […]
Scendemmo dal Curtiss Falcon mezzo anchilosati e aiutammo Marcelo a coprire l’aereo con un pesante telone. Eravamo riusciti a fotografare la Trochita, il vecchio espresso patagonico, il leggendario Patagonia Express, e ci consideravamo soddisfatti, ma nell’officina i ferrovieri ci riservavano ancora una sorpresa.
La nostra conversazione fu interrotta dall’inconfondibile fischio di un treno e tornando nell’officina vedemmo l’imponente Maffei 350 che innalzava una densa colonna di fumo e muoveva le bielle, facendo girare le ruote e trainando due carrozze passeggeri.
«Eccolo, ragazzi. Il vecchio Patagonia Express. Volete farci un giro?» disse uno dei ferrovieri.
Ci guardammo a vicenda, guardammo anche il treno che sbuffava per la voglia di partire verso la steppa e stringemmo forte la mano a quegli uomini che esibivano l’orgoglio più sano del mondo, quello del lavoro ben fatto, quello di essere parte di un insieme indispensabile: l’orgoglio di classe, semplicemente.
«I gringos sono andati verso nord, perciò noi andremo a sud» disse il macchinista.
Allora il mio socio ebbe l’idea più brillante. «E se avvisassimo la gente del paese che c’è il treno?».
Ed esattamente due ore dopo, con perfetta puntualità , la locomotiva mandò sbuffi di vapore che bagnarono di nebbia le banchine, il fochista cominciò a buttare palate di carbone nella caldaia e noi ci accomodammo sulle due carrozze in mezzo a una cinquantina di persone felici di poter nuovamente contare sul loro unico mezzo di trasporto.
Quel viaggio fu una festa. Quel viaggio fu il più bello della nostra vita, perché era nato dalla determinazione di un gruppo di uomini che, infischiandosene delle rappresaglie che avrebbero subito, avevano deciso che due viaggiatori venuti da molto lontano dovevano essere testimoni del loro amore per il lavoro.
Era limpida l’aria della steppa, erano allegri i volti affacciati ai finestrini delle carrozze, era compatta la colonna di fumo che usciva dalla locomotiva, era chiaro e onnipresente il fischio che annunciava il passaggio del treno, era dolce il vigore delle bielle che con tutta la forza dell’acciaio spingevano le ruote, e lo sferragliare del convoglio invitava a bere il mate offerto dal passeggero accanto mentre le conversazioni passavano in rassegna tutte le cose della vita. Fu un viaggio allegro, molto allegro, perché fu l’Ultimo Viaggio del Patagonia Express.
Traduzione Ilide Carmignani
(© e Daniel Mordzinski 2011 By arrangement with Literische Agentur Mertin Inh: Nicole Witt e K. Frankfurt, Germany)
© 2011 Ugo Guanda Editore Spa)


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