ISLAMISMO E PETROLIO

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Regimi assolutisti che sposano il pubblico purismo islamico (di rado praticato in privato) al vincolo strategico con l’America, fondato sullo scambio fra energia araba e asset militari a stelle e strisce rivolti contro l’arcinemico comune: l’Iran.
Dopo il panico, la prima profilassi sotto specie di pioggia di dollari: quasi duecento miliardi elargiti pronta cassa dal re saudita ai suoi grati sudditi, varie decine dagli emiri del Golfo. Ma due eventi chiave marcano quasi contemporaneamente l’avvio della controrivoluzione: l’invasione saudita del Bahrein e la guerra per rovesciare Gheddafi, erratico nemico di Riyad e di quasi tutti i regimi arabi, oltre che degli islamisti.
Il 12 febbraio le truppe saudite entrano a bandiere spiegate nel Bahrein in rivolta, nel timore che cada in mani iraniane. Buon esempio di “aiuto fraterno” che in tempi e contesti diversi avrebbe suscitato almeno la riprovazione delle nostre democrazie. Nulla di ciò. Anzi, sospiri di sollievo a Washington come a Londra, a Pechino come a Berlino, a Tokyo come a Parigi. Insomma ovunque si teme che la primavera araba possa estendersi ai custodi del più strategico tesoro energetico – le monarchie arabe del Golfo – tralignando in inverno globale.
Proprio in quei giorni maturava in Cirenaica la rivolta contro Gheddafi. Dove l’insofferenza popolare per l’oppressione del duce libico affrettava il tentativo di colpo di Stato di alcuni ex fedelissimi del colonnello, supportati dall’intelligence e da forze speciali francesi e britanniche. Scarsa attenzione si dedicava alla contingenza che le prime armi fossero state distribuite ai ribelli da un commando islamista che aveva assaltato la caserma di Derna. Meno ancora al fatto che l’organo principe della disinformazione rivoluzionaria si confermava Al Jazeera, canale satellitare qatarino controllato dal più autocratico fra i petromonarchi, l’emiro al-Thani. Un dittatore che vuole esportare la democrazia, sia pure molto lontano da casa sua – meglio, per tenercela lontana: un paradigma da segnalare nei futuri manuali di politologia.
Quasi inosservata passerà  poi la recente notizia delle dimissioni del direttore di Al Jazeera, smascherato da WikiLeaks come agente della Cia e prontamente sostituito da un cugino dell’emiro.
Inoltre, solo nella liberazione di Tripoli verrà  pienamente in luce il ruolo decisivo delle brigate islamiste nella liquidazione del regime, ben più robuste delle raccogliticce milizie del Consiglio nazionale di transizione, referente dei franco-inglesi e della Nato nella guerra contro Gheddafi. Le brigate islamiste erano e restano guidate da un jihadista doc come Abdel Hakim Belhaj. A ispirarle è lo sceicco Ali al-Salabi, esponente dei Fratelli musulmani, il quale ha chiesto e probabilmente otterrà  le dimissioni del “primo ministro” del Cnt, Mahmud Jibril, e degli altri “secolaristi”. Di qui le persistenti rivalità  fra i rivoluzionari libici, che si contendono armi in pugno quote di potere e di territorio.
In attesa di stabilire chi sortirà  vincitore dalla partita fra gli eversori del gheddafismo – temiamo ci vorrà  del tempo e del sangue – questi e molti altri elementi inducono a stabilire che la rivoluzione libica segni insieme la fine di un’odiosa tirannia e un passaggio rilevante nella controrivoluzione guidata dalle petromonarchie del Golfo. Una reazione ambiguamente assecondata dagli Stati Uniti, da altre potenze occidentali e non solo, accomunate ai sauditi nell’interesse a scongiurare la destabilizzazione della Penisola arabica. Evento in sé catastrofico, che nella crisi economica attuale assumerebbe riflessi apocalittici.
La sincronia fra invasione saudita del Bahrein e rivolta in Libia non è dunque meramente temporale, ma geopolitica. Si consideri solo che da questo doppio evento sono scaturite, fra le altre, queste conseguenze: a) il rapido declino delle istanze laiche e progressiste nelle piazze arabe e nordafricane, in parallelo all’emergere di vari gruppi islamisti, dagli scaltri Fratelli Musulmani agli estremisti salafiti, spesso d’intesa con gli autocrati sunniti del Golfo, Qatar in testa; b) il parallelo riaffermarsi delle Forze armate come centro del potere egiziano, non scalfibile dalle formazioni politiche emergenti; c) la rinuncia, almeno finora, a qualsiasi intervento occidentale o arabo in Siria – dove al-Assad massacra a man salva gli oppositori – per timore che il prossimo regime si riveli più pericoloso dell’attuale; d) il riesplodere degli istinti antisraeliani e antisemiti al Cairo e altrove; e) la parossistica tensione fra Arabia Saudita e Iran, dopo il presunto tentativo iraniano di assassinare l’ambasciatore saudita a Washington. Il rischio di una guerra preventiva di Gerusalemme contro Teheran ne risulta accentuato.
È presto per trarre un bilancio delle manovre in corso lungo la nostra periferia meridionale. Non è tardi per provare a interpretarle a partire non dai nostri desideri o dalle nostre edificanti semplificazioni, ma dalle ragioni e dagli interessi dei protagonisti, per quanto esoterici o esecrandi possano apparirci. Anche per evitare di caderne vittime.


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