Il male di vivere e il bene di scrivere Andrea era la resistenza del linguaggio
Allora egli appariva davvero, ancora più che nella necessaria fissità della scrittura, il “miglior fabbro” del nostro parlare – dei nostri parlari. Poiché, in quei momenti, insieme vissuti, non si comprendeva soltanto da quale “grande Gioco” di tradimenti e fraintendimenti, di contaminazioni, ingorghi e grovigli nasca ogni idioma, ma questo Gioco prendeva voce, mostrava il metro del batticuore. Poeta è colui che rifonda ogni volta la lingua, dando a essa inconfondibile voce.
Zanzotto scrive e parla sull’orlo dell’afasia. Ascoltarlo era ascoltare, allo stesso tempo, il più colto, raffinato, lavorato, inventato dei linguaggi, un balbettio quasi infantile, il suono delle parole nel loro germinare dal nostro stesso corpo, prima di ogni significato, Ogni parola si frantumava in uno “scintillio di possibili” (Subnarcosi); la lingua matrice (per dire con Dante) diveniva straniera, ma, insieme, captando anche solo il suono di quest’ultima, ti sembrava di riuscire a coglierne l’essenza. Così abitiamo il linguaggio – non come una dimora assicurata, ma come ciò che sempre ha ancora da venire, e che si “fonda” sull’abisso del proprio passato.
In questo linguaggio Andrea abiterà per sempre. Resisterà per sempre – poiché, come devastata gli appariva l’ecumene della sua terra – tragico simbolo della devastazione globale – , così devastato è il linguaggio ridotto a servire la informazione, il linguaggio come una “cosa” che ci si scambia, che si baratta per ottenere informazioni, il più rapidamente e a buon mercato possibile, il linguaggio, diceva Andrea, ridotto a un “secchio bucato”. Il poeta è scuola di resistenza contro tali devastazioni non per nostalgie e sentimentalismi, non in nome di bucolici colli e nostrani dialetti (che Iddio risparmi a Andrea idiozie co-regionalistiche di tal fatta – ma temo sia vana speranza), ma in forza dell’intatta nobiltà simbolica della parola, che è l’energia che ci sostiene e che costituisce la sola, vera essenza dell’umano.
La fatica che questa resistenza costava era segnata sul volto e sui movimenti di Andrea. Egli voleva che la sua opera fosse tanto perfetta, quanto capace di conservarne, anzi: denunciarne, la presenza. La perfezione del dictare non doveva nascondere il male di vivere. E allora questo nostro grande, all’altezza di un Joyce per audacia sperimentale, energia creatrice e anche ironia, faceva ritorno ai suoi “sempre futuri” amori, a Leopardi in primis, e poi a Hà¶lderlin e a Celan. Poeta non è chi descrive lo “squallido prodigio” della vita, ma chi nel suo metro, nella misura della sua opera, lo comprende e, in qualche modo, lo salva.
Ora va in pace, Andrea, e ti accompagni quella poesia della Dickinson che un giorno leggemmo – vedrai che gli orli del cervello, filo a filo, si ricongiungeranno, e che i gomitoli a terra sparsi dei pensieri troveranno la giusta sequenza. Tu l’hai meritato, dictator illustris.
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