Mongolia, uno scrigno di tesori nella tenaglia di russi e cinesi

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ULAANBAATAR (Mongolia) — Nero. Nero carbone. Myagmar porta a spasso la nipotina ma non sorride: lascerà  la casetta di mattoni e legno, resterà  sulla collina tornando però in una ger, una tenda circolare da nomade, lui che nomade non è più da vent’anni. «In un inverno mi vanno via 900 dollari di carbone, nella ger ne serve meno e si vive meglio». Futuro nero. Tsetsgee da dieci anni vende il necessario agli abitanti di questa favela già  sottozero all’inizio dell’autunno. Spaghetti cinesi, biscotti russi, zuppe coreane: un campionario di vicini ingombranti e amici possibili. Ha visto affollarsi di tende e casupole i pendii che scendono a Ulaanbaatar, «continuano ad arrivare», dice asciutta, ed è così che la capitale raccoglie ormai quasi la metà  dei neanche 3 milioni di cittadini mongoli.

Il carbone è una tonalità  del futuro. Quando ne parlano i politici nel labirintico palazzo del parlamento promette ricchezza. Una ricchezza che solletica le voglie dei Paesi intorno e di nazioni lontane, attratte da una Mongolia spopolata, democrazia giovane e imperfetta adagiata su forzieri di materie prime. Il giacimento carbonifero di Tavan Tolgoi, nel sud, è il secondo al mondo per ampiezza e, sfruttato a pieno regime (la proiezione è di 240 milioni di tonnellate l’anno nel 2040 dai 16 milioni di oggi), potrebbe garantire per anni una crescita del Pil a due cifre. Tuttavia il processo che avrebbe dovuto dare una scossa allo sviluppo della Mongolia si è arenato nel Gobi. Mostrando il micidiale intrico di fragili equilibri geopolitici, diffidenze storiche, caotiche dinamiche interne e un montante populismo nazionalista.

Satellite sovietico per quasi settant’anni, la Mongolia ha avviato dai primi anni Novanta un tormentato percorso che l’ha resa una democrazia bipartitica. Su ogni scelta, tuttavia, pesano l’arretratezza del suo sistema economico e le ipoteche di Mosca e Pechino. La Russia garantisce alla Mongolia oltre il 90% degli idrocarburi che, di fatto, ne permettono la sopravvivenza tout court, mentre finisce in Cina l’80-90% delle esportazioni. Se la Repubblica Popolare rallentasse i suoi acquisti, le conseguenze per la Mongolia sarebbero prevedibilmente gravi. Consapevole della propria vulnerabilità , Ulaanbaatar cerca di spezzare l’assedio. «Abbiamo bisogno di un “terzo vicino”. L’America, il Giappone. L’Europa», dice al Corriere in un inglese perfetto R. Amarjargal, già  primo ministro e ora deputato democratico. «La nostra transizione è ancora in corso. Dobbiamo imparare. E non avere fretta». In agosto era stato a Ulaanbaatar il vicepresidente americano Joe Biden, la scorsa settimana è arrivata Angela Merkel. L’Italia, dove la Mongolia aprirà  un’ambasciata, prova a ritagliarsi uno spazio: oggi il presidente Ts. Elbegdorj arriva a Roma (e sarà  il primo leader del Paese a incontrare il Papa) e sarà  poi a Milano; in settembre Paolo Romani era stato il primo ministro italiano a visitare il Paese.

Quando l’ex premier Amarjargal parla della fretta che non serve, allude all’affare Tavan Tolgoi. Prima dell’estate il quadro dello sfruttamento del giacimento sembrava compiuto. Metà  della concessione all’azienda statale Erdenes Mgl, l’altra metà  destinata a investitori stranieri. L’intesa vedeva coinvolti i cinesi di Shenhua Energy (40%), un consorzio russo-mongolo (36%) e gli americani di Peabody (24%). Accordo fatto. Ma alle rimostranze di sudcoreani e giapponesi, il governo ha fermato tutto. Indiscrezioni pubblicate nei giorni scorsi dalla stampa locale tratteggiano un nuovo assetto in cui tre fette uguali sono spartite fra cinesi, consorzio russo-mongolo e un nuovo cartello con giapponesi e sudcoreani a guida Peabody. A fine settembre il copione si era ripetuto con un altro importante giacimento, quello di Oyu Tolgoi — rame e oro — il cui sfruttamento era stato acquisito dalla canadese Ivanhoe (partecipata dal colosso australiano Rio Tinto): anche qui l’esecutivo voleva portare la quota mongola dal 34% pattuito al 50%, e il tira e molla si è chiuso con la riaffermazione del contratto originale.

Tanti tentennamenti derivano dalle elezioni del giugno prossimo. I due partiti maggiori (popolari eredi del partito unico e democratici) corteggiano un elettorato sensibile a promesse populiste, che siano azioni distribuite a pioggia o richiami nazionalisti. Ammette Ch. Tsogtbaatar, vicedirettore del settore minerario del nevralgico ministero dell’Energia: «La gente teme che siano gli stranieri a trarre profitti maggiori. Tanto più che ci sono vaste aree ancora da esplorare, sulle terre rare siamo indietro, ad esempio», dice al Corriere. E poiché carbone e rame devono camminare, sono da risolvere i problemi dei trasporti su rotaia, ma anche lo scartamento ferroviario (russo o cinese?) diventa una faccenda politica.

Investitori stranieri, operai importati dalla Cina, capitali d’oltreconfine, le fiammate emotive degli incidenti nella Mongolia Interna cinese intossicano il clima. I resoconti sui neonazisti di Ulaanbaatar hanno fatto il giro del mondo, la comunità  straniera riferisce di pestaggi. Il tutto contrasta con la strenua attenzione esibita dai governi mongoli all’Occidente, anche spedendo uomini in Iraq e Afghanistan. «La nostra cultura è europea», ripete B. Sergelen, la direttrice del teatro dell’opera nazionale. Intorno a lei i poster della Scala, in repertorio Verdi e Rossini, Zandonai e Puccini, ma anche Ciaikovskj, Orff, Mozart. Nelle sale prova cantanti con anni di studi in Italia. «Abbiamo bisogno di preservare la musica che è la nostra anima. Ed è musica europea». Invece il carbone, che un’anima non ce l’ha, aspetta di sapere chi saranno i suoi padroni.


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