La linea cauta del Quirinale, aspettare i fatti
Un modo per sottrarre il Quirinale alla bagarre politica su come interpretare quei 23 minuti di comunicazioni del Cavaliere in Aula e stabilire se in esse vi siano, oppure no, le «risposte credibili» chieste dal presidente della Repubblica sulla tenuta della maggioranza e sulla sua concreta operatività rispetto alle misure imposte dalla crisi economica. Giudizio sospeso, per non influenzare l’imminente voto di fiducia. E perché, in fondo, ciò che per il presidente davvero conta non è tanto il passaggio parlamentare di oggi, il cui esito è scontato, quanto ciò che verrà dopo. I fatti, appunto. Le uniche «evidenze» alle quali il capo dello Stato può dare affidamento.
Anche investire il Colle dei dubbi sui numeri che la coalizione potrebbe aggiudicarsi per un rilancio — come qualcuno fa, pretendendo quasi che l’eventuale mancanza di una maggioranza assoluta condizioni la verifica di Napolitano e lo induca a qualche passo ultimativo sul premier — è assolutamente improprio. Dopotutto Prodi resse il timone di Palazzo Chigi, con una navigazione pur breve e tormentata, contando solo su un pugno di voti. Insomma: ne basta uno, a norma di Costituzione. E la stessa storia repubblicana ha visto un’infinità di governi durati oltre il buonsenso unicamente perché prevaleva l’istinto di sopravvivenza dei parlamentari, aggrappati alla filosofia andreottiana del «meglio tirare a campare che tirare le cuoia».
In ogni caso, il discorso berlusconiano di ieri il presidente non l’ha ascoltato. Ha letto i resoconti d’agenzia, da Genova, dov’era impegnato con re Juan Carlos di Spagna e con il collega portoghese Cavaco Silva per l’annuale vertice del «Cotec Europa». Trovando però anche il tempo per intrattenersi a colloquio con i lavoratori della Fincantieri, preoccupati per i loro posti di lavoro, ai quali ha assicurato il proprio interessamento con un auspicio: «Mi auguro che il nostro Paese torni a fare politica industriale come in passato».
Due appuntamenti che lo hanno messo di fronte a due emergenze nazionali: la disoccupazione; la ricerca e l’innovazione (di questo, infatti, si occupa il Cotec). Due temi strettamente legati alla grande crisi economica apertasi da un paio d’anni e a quella concreta operatività che ha chiesto al governo, a patto che sappia dimostrare «la costante coesione necessaria per garantire adempimenti imprescindibili».
Silvio Berlusconi di tutto questo ha parlato solo per brevi cenni, a Montecitorio. Preferendo concentrare il suo intervento più sul piano politico che su quello programmatico e avvertendo con toni di minaccia che, qualora la sua maggioranza dovesse dissolversi, resterebbero soltanto le urne. Un passaggio azzardato perché, nell’ipotesi di una caduta dell’esecutivo, arbitro delle sorti della legislatura sarebbe il Quirinale. E si sa che Giorgio Napolitano — lo ha ripetuto più volte, anche di recente e in pubblico — esplorerebbe tutte le soluzioni prima di sciogliere le Camere.
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