Messina Denaro, la caccia infinita ma per la cattura è guerra tra apparati
Glielo chiede ogni giorno: «Dove sei, Matteo?». Da tre anni, alle 13.30 in punto, gli parla come se fosse da qualche parte vicino a lui. E dai microfoni della sua radio, ogni volta dà un piccolo indizio per trovare quello che il ministero dell’Interno indica come il latitante numero 1: Matteo Messina Denaro.
Il giovane giornalista Giacomo Di Girolamo vive a Marsala e a Marsala o a Castelvetrano o a Trapani vive libero anche il nuovo capo della mafia. Dicono tutti che è lì. A casa sua. In queste settimane è caccia grossa in Sicilia.
Lo inseguono in centinaia, qualcuno assicura che ha i giorni contati. Vero, non vero? Dopo diciotto anni di clandestinità – il boss è nascosto dal 2 giugno 1993, appena qualche mese dopo le stragi di Firenze e Milano e Roma – l’erede dei Corleonesi e il depositario dei segreti di Totò Riina pare che sia accerchiato. Il ministro dell’Interno Maroni ha annunciato più volte «la sua imminente cattura», negli ultimi anni gli hanno fatto terra bruciata intorno arrestando più di una quarantina di favoreggiatori. Sempre più solo, Matteo Messina Denaro è sotto assedio. C’è una “squadra” che lo rincorre dall’inizio dell’estate del 2006, subito dopo l’arresto di Bernardo Provenzano. Poi sono arrivati altri poliziotti. E finanzieri. E carabinieri. E agenti dei servizi di sicurezza. Un groviglio di sigle – Sco, Ros, Gico, Scico, Aisi, Aise – con un obiettivo che è unico: lui. Reparti speciali in missione da Palermo o paracadutati da Roma, esperti in intercettazioni ambientali e pedinamenti, l’eccellenza dell’investigazione italiana tutta acquartierata nella Sicilia occidentale per intrappolare “Diabolik”. Così viene chiamato l’ultimo dei boss della vecchia Cosa Nostra.
Tutti sono a un passo dal prenderlo ma tutti si fanno una guerra assurda per arrivare primi. Una guerra che sta probabilmente offrendo qualche piccolo vantaggio alla preda. La procura antimafia di Palermo, che coordina le ricerche con Teresa Principato, Marzia Sabella e Paolo Guido, fatica a contenere alcune scorribande investigative. Negli ultimi mesi sono sbarcati fra Marsala e Trapani anche “irregolari”, cacciatori senza una delega precisa dei magistrati per acciuffare Matteo Messina Denaro. Ci sono perfino i fedelissimi del capitano Ultimo – quello della misteriosa cattura di Totò Riina – che adesso sono tutti nei ranghi del Nucleo operativo ecologico. Ufficialmente scesi nell’isola per il business sui rifiuti e sull’eolico, anche loro braccano “Diabolik”. È una corsa sfrenata. Qualcuno protesta, qualcun altro ha paura che questo delirio possa far saltare tutto.
Un film già visto. È già accaduto in passato con Provenzano, quando i carabinieri del raggruppamento operativo avevano intralciato (nel più benevolo dei casi, perché c’è chi dice – il processo è in corso – che lo fecero apposta) le indagini dei poliziotti favorendo la fuga del boss di Corleone. Finirà così anche per “Diabolik”? La lotta fra apparati allungherà anche la latitanza del successore di Totò Riina?
«Dove sei, Matteo?», domanda dallo studio di radio Rmc 101 il giornalista Di Girolamo fornendo in cinque minuti una piccola traccia del capo mafioso. Una volta è il sequestro di un impianto di calcestruzzo («Ne sai niente di questi affari, Matteo?), un’altra volta è l’inchiesta su un colletto bianco, un’altra volta ancora il pretesto è l’inizio dell’anno scolastico per parlare sempre di lui e ricostruire la sua carriera studentesca. È invisibile ma sempre presente.
Famoso un tempo per i suoi abiti Versace e Armani, per i Rolex Daytona e le Porsche, oggi il mafioso non può più contare neanche sui fedelissimi ai quali affidava la sua sicurezza. Il fratello Salvatore, che è in carcere. Il cognato Vincenzo Panicola, anche lui agli arresti. I cugini Giovanni e Matteo Filardo, dietro le sbarre pure loro. Era quello il “cerchio” stretto che garantiva la latitanza di Matteo Messina Denaro fino a un anno fa. Solo parenti. «Una cellula impermeabile», raccontano gli investigatori. Ora è veramente solo. Matteo Messina Denaro non parla più con la moglie. Non parla più con la madre. Non parla più con la figlia. Così è cambiata da qualche mese anche la strategia investigativa per la sua cattura. Abbandonata la tecnica del fargli il vuoto intorno, i poliziotti ne hanno scelta un’altra. Segreta, naturalmente. Ma è quella che li ha portati vicino, vicinissimo a “Diabolik”. Di lui è in circolazione dal luglio scorso anche una nuova faccia, un identikit – l’ultimo risaliva al 2007 – realizzato dalla polizia scientifica con la tecnica del cosiddetto Age Progression, l’evoluzione di un volto tenendo conto della sua età . Nato il 26 aprile del 1962 a Castelvetrano, “Diabolik” ha quasi 50 anni.
Nel mezzo di questa caccia sono stati sfiorati anche personaggi eccellenti. Come il senatore Antonio D’Alì del Pdl, rampollo di una famiglia importante di Trapani, banchieri e possidenti, terre sterminate dove il loro campiere era Francesco Messina Denaro, il padre del latitante numero 1. Il senatore, ex sottosegretario agli Interni e ora presidente della commissione ambiente di Palazzo Madama, tre anni fa era stato indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Per due volte il gip di Palermo ha respinto una richiesta di archiviazione della procura che, in questi giorni, chiederà però il rinvio a giudizio per Antonio D’Alì. È coinvolto nel tentativo di Cosa Nostra di ritornare in possesso di un’azienda sequestrata (lo accusano non solo pentiti ma anche prefetti) e nella fittizia compravendita di una tenuta dei D’Alì. I boss fecero solo la mossa, non lo pagarono mai. Secondo l’accusa, erano daccordo con il senatore. Dietro, nell’ombra, c’era lui: Matteo Messina Denaro.
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