«Sicari iraniani in azione a Washington»

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WASHINGTON — «Un piano studiato e diretto dal regime iraniano» per assassinare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti Adel Al Jubeir. Un progetto di attacco concepito dall’Armata Qods, l’apparato clandestino dei pasdaran, che ha cercato di ingaggiare un gruppo di narcos messicani quali esecutori. Sembra un romanzo che racconta la «tempesta perfetta»: gli 007, i mullah e l’inquieto confine sud. Ma le conseguenze sono reali. Il segretario alla Giustizia Eric Holder ha denunciato la «grave violazione», il Dipartimento di Stato ha varato altre sanzioni contro 5 funzionari khomeinisti.

Il primo atto dell’Operazione Red Coalition, alleanza rossa, scatta in primavera quando Mansor Arbabsiar, 56 anni, cittadino americano di origini iraniane, e un suo complice, Gholam Shakuri, si mettono al lavoro. Contattano quello che ritengono un membro di un cartello messicano — in realtà  è un informatore della Dea — e gli spiegano che intendono uccidere l’ambasciatore saudita a Washington usando un commando formato da narcos. Arbabsiar racconta che un suo cugino è un personaggio importante del regime. Shakuri non è da meno: fa parte dell’Armata Qods, spesso coinvolta in attacchi terroristici e che dispone di uomini dal Medio Oriente all’America Latina. I contatti si intensificano. Gli iraniani vogliono usare l’esplosivo, non importa se ci vanno di mezzo degli innocenti. In uno dei colloqui con l’informatore, Arbabsiar è chiaro: «Loro (a Teheran) chiedono che l’ambasciatore sia “fatto” e se centinaia se ne andranno con lui che vadano a farsi fottere».

Gli emissari khomeinisti promettono al reclutatore messicano un «premio» di un milione e mezzo di dollari, poi eseguono alcuni bonifici bancari. Il primo agosto spediscono 49.960 dollari, il 9 una somma identica. È Arbabsiar a condurre le danze. Finanzia il progetto, viaggia tra gli Usa e il Messico (specie a Reynosa, al confine con il Texas), esegue dei sopralluoghi a Washington, telefona al complice. Ma tutto è monitorato dagli americani. L’attacco deve avvenire in un ristorante della capitale dove Al Jubeir va spesso a cena, un locale frequentato anche da senatori Usa. Se muoiono — sottolinea Arbabsiar — «non è un problema». Arriviamo a settembre. Il finto narco dice che tutto è pronto e chiede al suo contatto di recarsi in Messico per finalizzare l’accordo. L’iraniano si imbarca su un volo a New York ma quando arriva a destinazione è respinto. Appena rientra all’aeroporto Jfk è arrestato, Shakuri resta al sicuro a Teheran. In mano ai federali Arbabsiar collabora fornendo molte informazioni. Compresi i dettagli di incontri con Shakuri e un altro esponente dell’Armata Qods in Iran: vertici finalizzati alla campagna di attentati. Oltre all’ambasciatore saudita a Washington, la cellula voleva colpire sedi diplomatiche israeliane e di Riad negli Usa e in Argentina.

Il presidente Obama riceve un primo rapporto in giugno e poi segue gli sviluppi con briefing settimanali. Troppo gravi i contraccolpi. E, infatti, Washington informa gli alleati, quindi annuncia le sanzioni. Riad promette una risposta severa. Da Teheran rispondono smentendo, «è una favola». Non sarebbe una sorpresa se fossero coinvolti, si sono spesso sporcati le mani di sangue. Dall’Argentina all’Europa. Questo piano sembra però un po’ pasticciato. Gli 007 iraniani, di solito molto abili, si sono presi dei rischi: è facile che sul confine messicano ci siano informatori. E poi perché svelare subito il mandante? A meno che a Teheran qualche fazione non abbia voluto creare il caso per una nuova sfida.


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