Italiani, brava gente: l’accoglienza possibile
MONTECAMPIONE (Brescia) . Sabato 25 giugno. Gian Pietro Cesari, sindaco di Artogne viene informato dell’arrivo da Manduria (Taranto) di 99 profughi richiedenti asilo nel suo comune solo la sera precedente con una telefonata della Prefettura di Brescia. «Non avevo voce in capitolo, potevo solo prendere atto che sarebbero arrivati» spiega. Destinazione: Le Baite di Montecampione, il residence che sorge solitario in mezzo ai pascoli e alle piste da sci, balzato agli onori della cronaca anche fuori dai confini nazionali. Il sindaco ricorda come era stata garantita «la presenza della Protezione Civile, della Croce Rossa e delle associazioni del terzo settore che avrebbero accolto cento ragazzi di varie nazionalità , per di più con quella storia alle spalle». E invece, quando dall’alto dei 1800 metri dove si trovano Le Baite avvista i due pullman inerpicarsi per i tornanti che separano la struttura ricettiva dal primo centro abitato, preceduti solo da una volante della polizia, «ho capito che sarebbero stati abbandonati lì».
Abbandonati da tutti
Niente Protezione Civile. Niente terzo settore. Nemmeno la Croce Rossa (due addetti per un’ispezione) accettò di gestire un presidio medico permanente a quella quota. «Se la società civile non si fosse autorganizzata per aiutarli, la situazione sarebbe diventata esplosiva» denuncia Carlo Cominelli, presidente della cooperativa sociale K-pax, ente gestore del Sistema di protezione richiedenti asilo rifugiati (Sprar) di Breno. Fin dai primi giorni «senza che nessuno ce lo avesse chiesto e a titolo gratuito» ha curato le sorti dei rifugiati ospitati a Montecampione. E così, quel 25 giugno, i 99 profughi (nei giorni seguenti diventati 114), scendono dal pullman in pantaloncini e ciabatte, senza nemmeno sapere in quale parte d’Italia si trovino. Roberto e Valentina della rete SuaMontecampione, hanno provveduto a fornire una prima assistenza raccogliendo a fondo valle gli indumenti necessari per vivere a quelle temperature. Sono i primi “civili” ad aver messo piede a Le Baite. «Erano stati abbandonati, senza nemmeno una giacca con cui coprirsi, in quello che fin dal primo momento ci è sembrato un Cie senza sbarre e senza polizia». I profughi sono stati lasciati lì senza la possibilità di telefonare o di avere dei rasoi personali, senza nessuna assistenza legale, psicologica o sanitaria. Più di tre mesi confinati a 1800 mt. E se dal 4 ottobre i profughi hanno iniziato a scendere a piccoli gruppi è solo grazie al “Progetto di accoglienza diffusa” proposto alla prefettura di Brescia dalla cooperativa K-pax, che lo ha elaborato. E’ stato firmato da undici comuni chiamati a raccolta dalla Comunità Montana, dalla Asl locale (impegnata in un’assistenza sanitaria bisettimanale), dalla Cgil, dalla Cisl-Anolf (Associazione nazionale contro le frontiere) e da altri soggetti del mondo del terzo settore. Undici comuni, Edolo, Sellero, Capo di Ponte, Cerveno, Breno, Malegno, Berzo Inferiore, Esine, Artogne, Pian Camuno e Pisogne, per sessanta posti totali. La speranza è trovare altre disponibilità anche nella bassa bresciana in modo da svuotare entro il 30 ottobre sia Le Baite di Montecampione che il villaggio “Miò” di Val Palot a Pisogne, una “Montecampione” dalle dimensioni minori.
La buona rete di 11 comuni
Capofila di questo progetto il comune di Malegno, a pochi chilometri da Montecampione, sempre in Valcamonica, che per primo ha sperimentato il successo della micro accoglienza. A Malegno, di fronte al flusso di profughi in fuga dalla guerra in Libia, il sindaco Alessandro Domenighini ha deciso «di fare la propria parte». Qui, da anni, è attiva una rete di solidarietà attenta alla tematica dell’integrazione tra i popoli e dell’accoglienza dei profughi. «Così non ho dovuto far altro che contattare la cooperativa K-pax, dichiarare la nostra disponibilità ad accogliere qualche profugo e attivare un minimo di rete di solidarietà che permettesse l’integrazione di queste persone». Risultato: dall’inizio di giugno un senegalese e quattro ghanesi vivono in un appartamento a Malegno, seguono quotidianamente dei corsi di italiano e tre di loro collaborano al mantenimento dei beni pubblici grazie a un corso di avviamento al lavoro gestito dall’ufficio tecnico comunale. «Uno dei pochi casi, oggi, in cui possiamo dire che il lavoro nobilita» racconta il sindaco di Malegno. Incontriamo Adam, Abib, Ahmed, Ibraim, Rachid, alcuni nemmeno ventenni, al mattino mentre ripetono gli articoli indeterminativi con Orsolina, una delle insegnanti di italiano volontarie. Adam sa parlare meglio l’italiano e si lascia distrarre dall’entrata di un’estranea accompagnata dal «sindaco Alex», che viene salutato con affetto. Ibraim, che non è mai andato a scuola, non stacca gli occhi dal libro e continua a correggere l’esercizio. «Non siamo scappati in Italia per cercare lavoro ma per salvarci la vita» ci tengono a specificare.
Le loro storie sono simili a quelle di tutti gli altri rifugiati. Tutti fuggiti dalla guerra. Prima dai propri paesi d’origine dove spesso hanno lasciato o perso fratelli, genitori, mogli, poi dalla Libia dove avevano trovato lavoro. E ancora la «terribile» traversata e i compagni di viaggio «morti in mare su quelle navi vecchie in cui pensavi che saresti affondato da un momento all’altro». Ci allontaniamo da Malegno per proseguire in direzione fondo valle da cui si inerpica la strada per Montecampione. Una volta a 1800 metri il freddo pungente preannuncia un inverno insostenibile. «Perfino le mucche che nei mesi estivi ci hanno fatto compagnia a metà settembre sono state portate a valle dai pastori. Noi invece siamo rimasti qui» scherzano, ma non troppo, i richiedenti asilo.
In tutto a Montecampione sono rimaste circa ottanta persone, e il numero è destinato a calare. Il giorno in cui il manifesto li ha raggiunti, fuori c’è troppo vento e fa troppo freddo per qualsiasi attività all’aperto. Così, mentre restano in attesa di conoscere la risposta della commissione preposta a valutare le loro richieste d’asilo, cercano di riempire le giornate come possono. Qualcuno gioca a carte o a dama nella grande hall dell’albergo. Il bancone del bar, chiuso, e i cartelloni a forma di fiore che indicano la porta di un baby-club rendono ancora più surreale il clima. In molti rimangono nelle camere o vagano per i corridoi. Vengono dal Mali, dalla Nigeria, dal Ghana, dal Senegal, dal Burkina Faso. In tutto tredici nazionalità . Tanti parlano il francese, altri l’inglese. Ma c’è anche un numero consistente di ragazzi che non ha mai frequentato la scuola ed è analfabeta. Aspettano ansiosi di essere spostati. Gli oltre tre mesi sulla cima delle montagne camune non sono passati indenni, in una situazione psicologica già provata dalle difficili storie personali. «Liberi ma costretti dall’ambiente a uno spazio limitato». Carlo Cominelli, che ha gestito i primi trasferimenti, racconta di «aver riscontrato una sorta di “sindrome del profugo” che una volta sceso a valle fatica a recuperare autonomia e si sente disorientato». Carlo Cominelli non è d’accordo con l’assessore della regione Lombardia alla protezione civile, Romano La Russa, che ha parlato di «standard di accoglienza adeguati» offerti dalle convenzioni con gli alberghi. Il caso Montecampione «si basa sull’idea che la politica possa affidare ai privati l’accoglienza scaricando su quest’ultimi responsabilità che la politica stessa ha deciso di non assumersi» commenta Carlo Cominelli. Esauriti i posti dei centri che tradizionalmente accolgono i profughi, come lo Sprar di Breno (con la coop. K-Pax ed il centro accoglienza Casa Giona della Parrocchia di Breno) e la Caritas, sono stati gli albergatori privati, rappresentati da Federalberghi, gli interlocutori principali del tavolo preposto ad affrontare l’accoglienza.
La “sensibilità ” di Federalberghi
Il compenso per la «sensibilità sociale» di questi albergatori va dai 40 ai 47 euro al giorno per ogni rifugiato accolto. Il tutto per vitto, alloggio e «qualche servizio». Tanto per dare l’idea il gestore del residence Le Baite di Montecampione ha preso 42 euro a migrante che moltiplicati per 114 al giorno per oltre tre mesi costituiscono un vero e proprio business. «Nella fase iniziale la questione è stata affrontata solo da un punto di vista tecnico mentre è mancata la volontà politica che invitasse tutti gli amministratori a un senso di responsabilità » commenta Oscar Panigada, sindaco di Pisogne, anche lui avvertito solo la sera prima dell’arrivo di trenta profughi nel suo comune. «Siamo stati sorpassati» protesta il sindaco di Artogne, «inoltre i profughi dovevano essere distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale». Invece in provincia di Brescia su 375, ne sono stati “portati” in Valcamonica ben 258. In città e nella bassa bresciana è passata la linea della Lega Nord del “Noi non li vogliamo” e quasi tutti sono finiti sui monti. «Lontani dagli occhi, lontano dal cuore» commenta il sindaco di Artogne.
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