LA RICERCA HA BISOGNO DI UNA LINGUA MADRE

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Intervenendo nel dibattito aperto su Repubblica da Galli, Graziosi e Ciliberto, credo si debba innanzitutto ringraziare i colleghi impegnati nel lavoro, indispensabile e delicato, di individuare i criteri di valutazione dell’attività  scientifica svolta nell’università  italiana. Indispensabile perché occorre comunque fissare parametri formali di giudizio che mettano fine alla situazione di caos, e talvolta di parzialità , che finora ha reso opaco il sistema del reclutamento universitario. Delicato perché, investendo il futuro della ricerca, quest’operazione va condotta con un’ampiezza d’orizzonti e una sensibilità  culturale proporzionali alla sua rilevanza. Si tratta di mettere in campo una griglia metodologica di grande rigore, ma anche di grande duttilità , tale da non sacrificare la peculiarità  di situazioni specifiche alla necessaria generalità  degli obiettivi proposti.
È comprensibile che di questa complessità  la questione della lingua diventi il condensato e l’epicentro problematico. Ma è importante, in casi come questo, prima di arrivare alle conclusioni, evitare di partire da un presupposto sbagliato. Quale sarebbe quello di considerare il linguaggio una sorta di utensile neutro, o di scatola vuota, capace di convogliare al suo interno qualsiasi contenuto. L’inglese, divenuto globish, lingua globale compresa da tutti, consentirebbe di superare le barriere linguistiche nazionali, favorendo una comunicazione trasparente tra i ricercatori, sia nel campo delle scienze dure che in quello delle scienze umane. Alla base di tale ragionamento vi è l’idea errata che la lingua non abbia alcun rapporto né con il pensiero che trasporta né con il contesto in cui si genera – quando è ben noto che si pensa sempre in una data lingua e che ogni lingua è storicamente connotata.
Non riesco neanche a immaginare che si possa presumere qualcosa del genere. Che, per fare un esempio, si considerino i termini esprit, mind e Geist equivalenti e perfettamente traducibili l’uno nell’altro. Che non si sappia che il genio di una lingua, nell’ambito della filosofia, della letteratura o del diritto (ben distinto, anche semanticamente, in civil law e common law), risieda precisamente nei punti di resistenza al suo trasferimento immediato ed automatico in un’altra. Il che non significa che Dante o Heidegger siano intraducibili, ma che costituiscono una sfida ardua ed inesauribile per i loro traduttori. Sono precisamente questa tensione e questa sfida ad arricchire la conoscenza sia della lingua di partenza che di quella di arrivo. L’autoconsapevolezza di un linguaggio nasce sempre dall’urto e dalla comparazione con gli altri.
Tutto ciò è certamente ben noto ai membri dell’ANVUR. Solo che, evidentemente, essi considerano una certa omologazione linguistica, nonostante l’impoverimento culturale che ne deriverebbe, un prezzo accettabile da pagare all’internazionalizzazione della cultura italiana. Ma proprio questo effetto resta tutto da provare. Non solo per le ragioni richiamate da Ciliberto, relative alle radici italiane dell’intera cultura umanistica. Ma anche perché la scrittura in inglese, da parte di autori italiani, già  problematica in sé per quanto detto, ne renderebbe impossibile la traduzione nell’area anglosassone, privando l’esercizio di valutazione di un elemento decisivo di giudizio.
In ambito umanistico, libri di ricercatori italiani scritti in inglese non solo non sarebbero tradotti, ma interesserebbero sempre di meno. Almeno nel campo della filosofia, è noto che da alcuni anni tra gli autori contemporanei più tradotti in America vi sono gli italiani. Ma sono i pensatori italiani che non imitano gli inglesi né nella lingua né nello stile di pensiero. Sono quelli che portano in tutto il mondo il lessico, lo stile, l’originalità  di una peculiare tradizione filosofica, valida precisamente in quanto diversa dalle altre. La cultura, nazionale ed internazionale, nasce da questo confronto e da questo scambio. Da una continua relazione tra identità  e differenza, universalità  e singolarità . Fuori dalla quale il sapere diverrebbe un contenitore, senza vita e senza anima, di nozioni sempre più ripetitive.


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