Divorzio tra Fiat e Confindustria La Lega: ora via le aziende pubbliche

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ROMA — L’uscita della Fiat da Confindustria è «un segnale di disgregazione» e il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, spera in una «ricomposizione della frattura». Anche se dovrebbe essere Emma Marcegaglia a fare un passo indietro. «Ci auguriamo che si possa ricomporre questa frattura nel segno di una funzione sindacale modernizzatrice del sistema delle imprese» ha detto Sacconi, che due giorni fa ha attribuito la decisione di Sergio Marchionne alla scelta di Confindustria e sindacati, il 21 settembre scorso, di neutralizzare la norma che offre alle parti la possibilità  di derogare allo Statuto dei lavoratori. «Abbiamo bisogno di un sistema delle imprese che faccia sindacato e che sviluppi una forte evoluzione delle relazioni industriali nella direzione territoriale e aziendale per un lavoro che sia di qualità  e ben remunerato» ha detto ieri Sacconi.

La mossa della Fiat ha aperto un fronte di battaglia molto vasto, dove si scontrano le forze politiche di maggioranza e opposizione e i sindacati, di nuovo più lontani tra di loro. La Cgil attacca Marchionne, e lancia stilettate anche agli altri sindacati. «La scelta della Fiat non rispetta le regole di questo Paese. I famosi grandi innovatori stanno tornano alle ricette ottocentesche, per cui non ci sono regole e i lavoratori devono pagare per tutte le conseguenze della crisi. L’azienda vuole dettare legge sulle relazioni industriali e non ci dice cosa vuole produrre e con quali piani industriali. Continuiamo a non capire che cosa voglia produrre nel nostro Paese. E la cosa più grave — dice la Camusso — è che il governo fa da sponda all’idea di togliere le regole e non ha l’autorevolezza di chiedere qual è il programma industriale del Lingotto».

Agli altri sindacati la Cgil chiede «uno scatto d’orgoglio unitario», ma la reazione è di fastidio. «Stupisce ma non troppo che in un momento così difficile per il Paese la Cgil non trovi di meglio che impartire lezioncine sull’orgoglio sindacale» replica Giorgio Santini, segretario generale aggiunto della Cisl. Secondo il quale bisogna «proseguire nella battaglia fatta in questi tre anni di crisi con l’estensione degli ammortizzatori sociali e la riforma della contrattazione che ha permesso, tra l’altro, gli importanti accordi di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco», tutti fatti con il Lingotto. «Fiat sta semplicemente portando avanti il progetto avviato con l’alleanza con la Chrysler. Un grande gruppo industriale può decidere di uscire da Confindustria: il problema — osserva Giovanni Centrella dell’Ugl — è che potrebbe seguirlo qualcun altro, causando la fine di un intero sistema».

Giorgio Fossa, ex presidente degli industriali, sottolinea che «l’uscita di Fiat porterà  dentro Confindustria numerose piccole e medie imprese, che sono poi il vero tessuto industriale del Paese». Ma sul futuro della Confederazione, oltre alla linea presa sulle relazioni industriali, pesa anche quella seguita nei confronti del governo. Motivo che ha indotto ieri ad annunciare l’uscita dalla Confederazione anche la Cartiere Paolo Pigna, controllata dal deputato del Pdl Giorgio Jannone, «perché Confindustria deve rappresentare tutti e non assumere posizioni marcatamente politiche, dando ultimatum al governo. La stessa ragione che ha spinto la Lega Nord a chiedere al Tesoro di far uscire tutte le aziende controllate dallo Stato.

La linea di Marchionne divide i sindacati e la politica, ma non viene premiata dai mercati. Dove, più di ogni altra cosa, pesano i risultati industriali, e i dati dell’altro giorno sulle immatricolazioni di settembre (-4,7% sull’anno prima), non sono buoni. Così in Borsa, ieri, Fiat ha lasciato il 7,47%, Fiat Industries l’8,46% mentre la controllante Exor ha perso il 7,05%.


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