Morire di fame o d’amianto

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Gli operai dello stabilimento Eni di Gela da decenni lottano per vedersi riconosciuto il diritto a percepire il sussidio speciale previsto per chi è stato sottoposto ad amianto. Una battaglia lunga e piena di delusioni, complicata dal fatto che l’Ente energetico corse ai ripari eliminando – almeno ufficialmente – il dannoso materiale pochi mesi prima dell’entrata in vigore della legge n.257 che impone il divieto assoluto di utilizzo dell’amianto a fini industriali o commerciali. Una mossa che quindi mise fuori gioco ogni rivalsa dei lavoratori, i quali, comunque, non si sono arresi e sono andati avanti ritenendosi dalla parte del giusto. Anni di lotta e di lavoro, durante i quali si sono consolati con la certezza che perlomeno da quel momento in poi avrebbero lavorato in un luogo sicuro. Poi il colpo di scena: a fine luglio, all’interno dell’isola 32 dello stabilimento, militari della guardia costiera e del nucleo speciale d’intervento di Roma hanno scoperto una grande vasca contenente almeno 27 tonnellate di amianto, del tipo amosite, conservate nella totale inosservanza delle regole. Teloni bucati, sacchi aperti e, di conseguenza, fibre d’amianto libere di essere trascinate dal vento e inalate dai lavoratori. Una scoperta scioccante, che ha messo ulteriormente in allarme gli operai. L’impresa che “mette in circolo l’energia”, ha continuato imperterrita in questi anni a mettere in circolo anche ben altro: sostanze nocive che – in base ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità  – ogni anno uccidono centomila persone nel mondo, secondo cifre che gli esperti definiscono sottostimate. Per non contare i ventimila tumori per cancro al polmone e i diecimila casi di meotelioma che provoca ogni dodici mesi nei soli paesi industrializzati di Europa, America del Nord e Giappone. E, per stringere il cerchio alla sola Italia, si parla di 4000 decessi annui, in un paese che è stato il secondo produttore europeo e tra i principali consumatori della sostanza, che – secondo il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro – resta ancora ben lontana dall’essere estirpata dal territorio nazionale. La stima è di 32 milioni di tonnellate di amianto ancora sparse per tutta la penisola e di un miliardo di metri quadri di coperture di eternit sui tetti.

Stando ai legali che seguono il caso dei lavoratori gelesi esposti all’amianto, la scoperta della discarica testimonia la politica industriale usata da Eni a Gela: ovvero occultare il materiale senza eliminarlo e dare una parvenza di regolarità , alla faccia della salute della gente. Come ha scritto Rosario Cauchi nell’articolo apparso su Libera Informazione, i responsabili locali di Raffineria di Gela s.p.a. – società  appartenente alla multinazionale lombarda – non rilasciano commenti limitandosi a emanare comunicati stampa nei quali si rinvia l’intera questione alle indagini in corso. Ma nei molti dossier sul caso emerge che all’interno del sito industriale vi sono evidenti tracce di pericolosi minerali silicei. I veri nemici dei lavoratori, infatti, si chiamano crocidolite e amosite, anche conosciuti come amianto blu e amianto bruno: tra le fibre più pericolose per la salute umana. Eppure, nonostante questi documenti che evidenziano la presenza attiva del killer silenzioso siano comprovati, i contributi previdenziali in favore dei lavoratori che hanno operato a contatto con le fibre vengono riconosciuti, dopo lunghe battaglie legali, solo a coloro che possano dimostrare di essere affetti da patologie conclamate. Senza minimamente tener conto che l’effetto si può manifestare anche dopo 40 anni dal contagio, come sostengono gli epidemiologi.

Intanto a Gela, dopo il sequestro della discarica contenuta nella quarta vasca dell’isola 32, Enimed Spa ha provveduto a ricoprirla come richiesto dalla Capitaneria di Porto e dall’Asp di Caltanissetta. Secondo la legge, infatti, dopo a ogni abbandamento di materiale contenente amianto, si deve aggiungere uno strato di terra e un telo protettivo in plastica. Ma poco importa. È comunque troppo tardi e gli operai sono decisi a farla pagare ai responsabili. Già  nell’agosto dello scorso anno, infatti, a seguito di un’ispezione, era stato riscontrato l’uso di teloni deteriorati dal tempo che, inevitabilmente, non bloccavano la diffusione in atmosfera delle pericolose fibre.
 Ma nessuno ha mosso un dito per rimediare. Dopotutto, quella iniziata a luglio scorso non è che l’ennesima inchiesta che coinvolge i vertici dell’industria gelese che hanno, spesso, negato persino la presenza di amianto all’interno del sito.


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