Il «mea culpa» della Cgil
Dopo vent’anni di legislazione sul lavoro in cui i sindacati hanno tollerato, e molto spesso agevolato approvando il «pacchetto Treu», la crescita abnorme della precarietà , la Cgil riconosce di avere sbagliato. Intervenuta domenica scorsa al festival di Internazionale a Ferrara, la segretaria del maggior sindacato italiano Susanna Camusso ha abbozzato un «mea culpa»: «abbiamo sbagliato qualcosa, se gran parte del lavoro è oggi precario».
Scartata l’ipotesi di abolire la legge 30, Camusso ha ribadito la necessità di garantire un nuovo modello di contrattazione che tuteli i lavori «atipici». «In Italia – ha aggiunto – abbiamo 46 modalità di rapporto di lavoro il che equivale a non averne nessuno. Questa moltiplicazione permette di sfuggire alle regole a scapito dei diritti. Anche a sinistra abbiamo sbagliato nel credere che questo fenomeno fosse transitorio».
Tra le numerose soluzioni in campo per risolvere un fenomeno apparentemente insuperabile, Camusso ha escluso quello del «salario minimo garantito». Per lei la soluzione resta quella dell’estensione del contratto nazionale a stagisti, borsisti e praticanti e ad alcune categorie del lavoro professionale.
Sia pur tardivo, è il riconoscimento di una realtà drammatica. Il 75 per cento delle nuove assunzioni registrate negli ultimi mesi sono «precarie» e nessuna di queste prevede i diritti garantiti al lavoro dipendente. I dati dell’Osservatorio sul mercato del lavoro della Provincia di Milano confermano che nel 2010, considerate tutte le tipologie contrattuali, da quelle subordinate al lavoro autonomo, il tasso sfiora il 33 per cento della popolazione attiva e riguarda soprattutto i giovani, ultra-istruiti o appena laureati. Nella provincia di Roma, dati analoghi confermano che il tasso di disoccupazione tra i laureati tra i 25 e i 34 anni è salita solo negli ultimi due anni del 12 per cento e almeno 32 mila persone sono entrate nella categoria degli «inattivi».
Anche per la Cgil la precarietà non è più un incidente di percorso verso il contratto a tempo indeterminato, ma è la condizione strutturale delle forme del lavoro contemporanee. Insomma, il precario non è un lavoratore in fieri, ma un lavoratore di fatto. La soluzione indicata è quella di trasformare i contratti nazionali in strumenti inclusivi per regolare il precariato. È stato questo l’orientamento approvato in un direttivo nazionale di Corso Italia dopo lo sciopero generale del 6 maggio durante il quale è stato confermato che l’obiettivo finale di questa battaglia contro la precarietà è «tendere alla riunificazione contrattuale delle filiere produttive».
Una conferma in questo senso è venuta dall’accordo sui dipendenti degli studi professionali siglato da Filcams (Cgil), Fisacat (Cisl) e Uiltucs (Uil), insieme alla Confprofessioni. Il contratto prevede un aumento di 87,50 euro e ha suggellato la ritrovata unità sindacale dopo la stagione degli accordi separati. Coinvolgerà un milione di addetti al servizio negli studi legali, notarili, commercialisti, odontoiatri, architetti e ingegneri e per 400mila tra praticanti e partite Iva (stima per difetto) e avrà valore retroattivo dal 1 ottobre 2010.
«Se il sindacato vuole concredtamente parlare alle nuove generazioni, e ai nuovi lavori – sostiene Ilaria Lani, responsabile giovani Cgil – e superare il problema della precarietà deve individuare soluzioni che contrastino gli abusi ed estendino i diritti fondamentali a partire dal compenso». Per colmare il clamoroso vuoto di diritti e di garanzie lungo vent’anni, e disboscare la giungla dei contratti temporanei, la Cgil propone un uso flessibile della contrattazione anche in settori, come il lavoro autonomo, fino ad oggi trascurati.
A differenza delle proposte sul contratto unico presentate da Pietro Ichino, o da o Tito Boeri e Pietro Garibaldo («sono differenti, ma partono entrambe dal presupposto di una riduzione dei diritti in cambio di una finta stabilità » sostiene Lani), «vogliamo affermare il principio della stabilità del lavoro e i diritti fondamentali delle figure atipiche e dei professionisti che lavorano presso un’impresa».
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