Fra protesta sociale e «questione nazionale»

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 Ecco a voi una storia che finora non è stata mai raccontata: mentre il Titanic eraa largo nell’Atlantico, il suo equipaggio si ammutinò. Chieceva salari più elevati, alloggi meno soffocanti, cibo migliore. Si era riunito sul ponte più basso e si rifiutava di muoversi da lì. Poche vecchie mani dalla sala motori provarono ad allargare i motivi dell’agitazione: sostenevano che il capitano era scandalosamente incapace, gli ufficiali sciocchi e che il viaggio era destinato a finire in tragedia.

Ma i leader della protesta facevano resistenza: «Non dobbiamo andare oltre le nostre richieste – dissero -. La rotta della nave non ci riguarda. Qualunque cosa alcuni di noi pensino del capitano e degli ufficiali, noi non dobbiamo confondere i problemi. Ciò avrebbe solo l’effetto di dividerci».
I passeggeri non intervennero. Molti di loro simpatizzavano con la protesta, ma non vollero essere coinvolti direttamente. Si racconta di una signora inglese ubriaca sul ponte, con un bicchiere di whisky in mano, che vide in lontananza un enorme iceberg. «Ho chiesto del ghiaccio – mormorò – ma questo è davvero troppo».
Per una settimana tutti i media israeliani sono rimasti inchiodati a quello che stava succedendo alle Nazioni unite. Ehud Barak ci aveva messi in guardia contro «uno tsunami». Avigdor Lieberman aveva previsto «un bagno di sangue». L’esercito era stato preparato a contrastare manifestazioni gigantesche che sarebbero sfociate certamente in una violenza senza precedenti. Nessuno riusciva a pensare ad altro. E invece, nell’arco di una notte, il cruento tsunami è svanito come un miraggio, ed è riapparsa la protesta sociale. Fuori lo stato di guerra, dentro lo stato sociale. Come mai?
La commissione nominata da Benyamin Netanyahu per esaminare le radici della protesta e proporre riforme ha finito il suo lavoro a tempo di record e messo sul tavolo uno spesso volume pieno di proposte, tutte valide: istruzione gratuita a partire da tre anni, tasse più alte per i ricconi, più investimenti nell’edilizia popolare…
Tutto bellissimo. Ma molto meno di ciò che chiedevano i dimostranti. Circa mezzo milione di manifestanti qualche settimana fa non erano scesi in piazza per questo. Docenti di economia attaccavano il governo, altri lo difendevano. Ne era nato un vivace dibattito. Che poteva andare avanti per qualche giorno, ma poi qualcosa era destinato a succedere – un incidente al confine, un pogrom dei coloni contro un villaggio palestinese o una risoluzione in favore di questi ultimi alle Nazioni unite – e tutta la banda dei media avrebbe dovuto volgersi altrove, dimenticandosi delle riforme e tornando alle sane, vecchie paure.
Intanto sarà  il bilancio delle forze armate a svolgere la funzione di pomo della discordia. La commissione governativa ha proposto di ridurlo di tre milioni di shekel (meno di un milione di dollari) per finanziare le sue modeste riforme. Netanyahu si è mostrato d’accordo. Una proposta che nessuno ha preso seriamente, perché il minimo incidente permetterebbe all’esercito di chiedere stanziamenti speciali e al posto della piccola riduzione proposta arriverebbe un altro grande aumento. Ma l’esercito ha già  sollevato l’inferno – letteralmente – descrivendo il disastro che certamente si abbatterebbe su di noi se la diabolica riduzione non sarà  soffocata nella culla: andremo incontro a una sconfitta nella prossima guerra, verranno uccisi molti soldati e una futura commissione d’inchiesta giudicherà  responsabili gli attuali ministri. I quali se la stanno già  facendo sotto dalla paura.
Protesta e sicurezza
Tutto ciò mostra quanto rapidamente l’attenzione nazionale possa oscillare dalla «modalità  protesta» alla «modalità  sicurezza»: un giorno marciamo nelle strade a pugni alzati, quello successivo ci prendiamo cura dei baluardi nazionali, determinati a sacrificare con coraggio le nostre vite. Si potrebbe quindi concludere che i due problemi siano in realtà  uno solo e possano quindi essere risolti soltanto insieme. Ma quest’idea incontra una fiera resistenza.
I giovani leader della protesta insistono che la richiesta di riforma unisce tutti gli israeliani – uomini e donne, giovani e vecchi, di sinistra e di destra, ebrei e arabi, askenaziti e orientali. In questo sta la sua forza. Nel momento in cui si va a toccare la politica nazionale, il movimento si spacca. Fine della protesta.
Difficile non essere d’accordo. Certo, nonostante questo atteggiamento la destra accusa i dimostranti di essere gente di sinistra in incognito. Nelle manifestazioni si vedono pochissimi nazionalisti-religiosi. E nessun ultra-ortodosso. Gli ebrei orientali, che tradizionalmente sostengono il Likud, ci sono ma sono poco rappresentati. Si parla di un movimento della «Tribù bianca», cioè fatto di ebrei di origini europee.
Comunque questo movimento è riuscito a evitare fratture evidenti. Le centinaia di migliaia di manifestanti non sono stati invitati a identificarsi con alcun partito o credo politico. I leader possono affermare correttamente che la loro tattica – se di tattica si tratta – finora ha funzionato. Questa convinzione è stata rafforzata dai recenti movimenti all’interno del Partito laburista.
Questa congregazione agonizzante, che i sondaggi davano appena al 7%, sembra improvvisamente rinata. Una vivace elezione primaria per la leadership del partito ha restituito un po’ di colore alle loro guance. Con una vittoria a sorpresa, Shelly Yacimovich è stata eletta presidente del partito.
La sorpresa Shelly
Shelly ha un passato da giornalista radiofonica energica e abrasiva con forti idee femministe e socialdemocratiche. È entrata nel Labor sei anni fa ed è stata eletta alla Knesset sotto l’ala protettrice dell’ex leader Amir Peretz, che ora ha battuto sonoramente alle primarie.
In parlamento Shelly si è distinta come militante diligente e instancabile delle lotte sociali. È una ragazza 51enne, una lupa solitaria poco amata dalle sue colleghe e priva di carisma. Nonostante ciò la base del partito, forse per pura disperazione, l’ha preferita ai membri della fallimentare vecchia guardia. E l’atmosfera prodotta nel paese dal movimento di protesta sociale certamente ha contribuito al suo successo.
Durante gli anni trascorsi alla Knesset, Shelly non ha menzionato nessuno dei problemi nazionali: la guerra e la pace, l’occupazione militare, gli insediamenti. Si è concentrata esclusivamente sulla questione sociale. Alla vigilia delle primarie, ha scioccato molti membri del suo partito appoggiando pubblicamente i coloni: «Gli insediamenti non sono un peccato né crimine» ma sono stati messi lì dai governi laburisti e fanno parte del consenso nazionale. Può crederci veramente o la può ritenere una tattica efficace, sta di fatto che ha adottato la stessa linea del movimento di protesta: la questione sociale deve essere tenuta distinta dai problemi «nazionali». Pare insomma che si possa essere di destra sull’occupazione militare e di sinistra sulla tassazione nei confronti dei ricchi.
Ma è davvero possibile?
All’indomani delle primarie è successo qualcosa di straordinario. In un sondaggio d’opinione i laburisti sono balzati da otto a 22 seggi alla Knesset, superando Kadima di Tzipi Livni, sprofondato da 28 a 18.
Una rivoluzione? Non esattamente. Tutti i voti guadagnati dai laburisti provenivano da Kadima. Ma uno spostamento da quest’ultima ai laburisti, anche se interessante, non rappresenta un fenomeno importante. La Knesset è divisa in due blocchi: i nazionalisti religiosi e il centro-sinistra/arabi. Fino a quando lo schieramento della destra avrà  un vantaggio del 5%, non sarà  possibile alcun cambiamento. Per ottenerlo, un certo numero di votanti deve passare da un piatto all’altro della bilancia.
E Shelly ritiene che evitando i problemi nazionali e concentrandosi sulla questione sociale gli elettori possano essere convinti al salto. Sostengono alcuni che conta solo questo obiettivo. A che serve avanzare un piano di pace se non puoi cambiare il governo? Prima andiamo al potere, con ogni mezzo, poi vedremo la pace. Ma contro questo argomento c’è l’affermazione contraria: se inizi ad appoggiare i coloni e ignorare l’occupazione militare, finirai per diventare un partner minore in un governo di destra, come è già  successo. Chiedete a Shimon Peres. Chiedete a Ehud Barak.
Poi c’è la questione morale
E poi c’è la questione morale: puoi davvero scandire lo slogan «Il popolo reclama giustizia sociale» mentre ignori l’oppressione quotidiana di 4 milioni di palestinesi nei Territori occupati? Quando abbandoni i tuoi principi sulla via della vittoria, che te ne farai del potere una volta ottenuto?
Le festività  ebraiche cominciate qualche giorno fa ci concedono una pausa di riflessione. I politici non sanno che pesci prendere. I leader della protesta promettono un’altra manifestazione – sulle richieste sociali – ino un mese. Intanto il Titanic sta cavalcando le onde.
Traduzione di Michelangelo Cocco


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