Le manette per gli Indignati USA «Ci hanno teso una trappola»

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NEW YORK — La protesta continua. Centinaia di manifestanti del movimento «Occupy Wall Street» (versione americana degli Indignados comparsi per la prima volta in Spagna) ieri hanno continuato ad occupare Zuccotti Park, nel distretto finanziario di Manhattan, coi loro materassini, laptop, cartelli e chitarre. Neppure l’arresto in massa di oltre 700 attivisti, sabato sera, è riuscito a smorzare l’entusiasmo di un movimento giunto ormai alla terza settimana di protesta ininterrotta, che oltre a diffondersi a macchia d’olio in tutto il Paese conta adesso sul potente appoggio del sindacato degli insegnanti e dei trasporti.

Ieri l’America parlava solo di loro. Dei 700 «ribelli» arrestati dalla Polizia di New York — e poi rilasciati — per aver bloccato il ponte di Brooklyn. I disordini erano cominciati quando i manifestanti che protestavano contro il salvataggio governativo delle banche, il tasso record di disoccupazione e i pignoramenti delle case, hanno iniziato a marciare lungo le corsie destinate alle auto, abbandonando i marciapiedi laterali e bloccando così il traffico.

Il sito ufficiale della protesta occupywallst.org ha trasmesso interviste ai manifestanti, secondo cui gli agenti avrebbero teso loro una vera e propria «trappola». «Ci hanno scortati verso il ponte e poi ci hanno circondati con una rete di plastica arancione, per poterci arrestare tutti insieme», afferma l’addetto stampa di Occupy Wall Street, Jesse A. Myerson.

Alcune ore dopo il portavoce della polizia di New York, Paul J. Browne, ha diffuso un filmato dove agenti intimano ai manifestanti di rimanere sui marciapiedi. «Ci hanno costretti ad intervenire», assicura Browne. L’ormai quotidiana «guerra di video» tra polizia e dimostranti va avanti da giorni. Da quando in un video cliccatissimo sul Web, il vice ispettore della polizia di New York Anthony Bologna spruzza spray urticante contro ragazze che stavano partecipando pacificamente alla protesta. Oltre a creare un putiferio nell’opinione pubblica, costringendo il capo della polizia Raymond Kelly ad aprire un’indagine, il video ha finito per dare slancio ad un movimento che all’inizio contava meno di una dozzina di simpatizzanti, tutti studenti. «Ha galvanizzato la simpatia nei confronti di un gruppo dai propositi buoni ma vaghi», afferma sul New York Times Ginia Bellafante, ricordando analoghi movimenti esplosi grazie alla brutalità  della polizia cittadina: dalle proteste alla Columbia University nel 1968, ai tumulti di Tompkins Square Park del 1988.

La stessa Bellafante è diventata una delle giornaliste più odiate dai contestatori dopo l’articolo del 25 settembre che ritrae Occupy Wall Street come una banda di clowneschi hippy la cui «ambasciatrice non ufficiale» è «una bionda seminuda che si fa chiamare Zuni Tikka ed è decisa a invertire le lancette dell’orologio per riesumare il ’68». La maglia nera spetta però a Fox News che avrebbe addirittura spedito un agente provocatore a Zuccotti Park: un nero conservatore piantonato dalla troupe di Rupert Murdoch, decisa ad «immortalare l’intolleranza dei dimostranti nei suoi confronti».

Da giorni anche i media più progressisti faticano a catalogare un fenomeno che sfugge ad un’unica, preesistente etichetta perché è tante cose insieme. Basta ascoltare i loro slogan per capire che questa non è Woodstock e neppure le marce anti-Vietnam. «Meditiamo tutti insieme per il cambiamento sociale», un manifestante esorta i dimostranti raccolti in una seduta yoga, mentre uno striscione chiede di rimuovere Andrew Jackson dalla banconota da 20 dollari «per la sua brutalità  verso i nativi americani». «Siamo il 99% del Paese», spiega Rose Perlson, disoccupata nonostante un master in Storia, ricordando come «l’1% degli americani detiene più ricchezza del restante 99%». Marc Adler, che prima di lanciare il blog super-indignado The Bloody Crossroads era uno studente di Talmud e Torah in Israele, se la prende col «capitalismo sfrenato che vige dalla fine degli anni 70», contro «l’assalto ai sindacati che ha ridotto gli iscritti al 12% della forza lavoro» e contro una nazione «dove 46 milioni di americani vivono sotto la soglia di povertà  e 45 mila muoiono ogni anno per malattie curabilissime».

«Il nostro movimento s’ispira a piazza Tahrir e alla primavera araba», spiega il 27enne web designer Tyler Combelic, portavoce dei dimostranti. «Anche se loro non devono deporre dittatori e non ci sono spari nell’aria, l’uso sapiente di Twitter e degli altri social media è identico», teorizza il columnist Nicholas Kristof, stupefatto dalla straordinaria organizzazione di Zuccotti Park, suddivisa tra area ricevimento, zona per i media (immortalata da Michael Moore, Susan Sarandon, Cornell West e Roseanne Barr), clinica, libreria e ristorante dove arrivano pizze e panini («OccuPie Special») pagati con la carta di credito dai sostenitori in tutto il mondo. Dopo Boston, Albuquerque, Los Angeles e San Francisco, il prossimo 6 ottobre le proteste sbarcheranno a Washington dove alcuni dimostranti hanno già  chiesto l’arresto del presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, «per tutto il denaro dei cittadini usato per salvare le banche». Nella capitale, come nel resto del Paese, hanno risposto all’appello giovani, minoranze, sindacati e donne. Ovvero tutti i gruppi di cui Barack Obama ha ancora disperatamente bisogno se vuole essere rieletto alle presidenziali del prossimo anno.


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