Il patrimonio venduto (a parole)

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ROMA — Gli avessero dato retta, quella volta, ad Attilio Bastianini… «Per ridurre il debito pubblico diminuendo il peso degli interessi dobbiamo mettere in vendita parte del nostro patrimonio pubblico», andava ripetendo a tutti il deputato del fu Partito liberale. Ma i suoi colleghi della maggioranza, c’era il pentapartito e il Pli partecipava al governo, facevano orecchie da mercante. Il presidente del Consiglio Giovanni Goria liquidò la proposta, come fosse una mezza sciocchezza, con il consueto garbo. Per dargli un contentino sarebbe stato successivamente messo in piedi l’ennesimo comitato interministeriale che avrebbe dovuto esaminare le eventuali procedure da seguire per la vendita degli immobili pubblici. Tecnica collaudatissima: quando in Italia non si vuole fare una cosa si crea una commissione. E la faccenda morì lì.

Correva l’anno 1987. Durante i quattro anni del governo di Bettino Craxi il debito pubblico italiano era letteralmente esploso, arrivando a superare di slancio il 93% del Prodotto interno lordo. Il doppio rispetto a Francia e Germania, e già  allora ben oltre il 60% che tre anni dopo sarebbe stato fissato a Maastricht come limite invalicabile per aderire alla futura moneta unica. Inutile aggiungere che gli interessi, spinti da tassi stratosferici, galoppavano. Nel 1988 pagammo l’equivalente attuale di 90 miliardi di euro. Più di quanto ci costano oggi (ma ancora per poco, se non ci si mette subito una pezza bella grossa).

Qualche conto, i liberali se l’erano già  fatto. A dire il vero i conti precisi li stava facendo una commissione presieduta dal costituzionalista Sabino Cassese, che calcolò in 651.044 miliardi di lire il valore del patrimonio pubblico. Rapportato ai valori di oggi, 702 miliardi di euro: 141 miliardi in più rispetto allo stock del debito pubblico, che allora toccava l’equivalente attuale di 561 miliardi.

Un quarto di secolo dopo la situazione si è capovolta. E se ancora nel 2008 il procuratore generale della Corte dei conti regalava una suggestione al Cavaliere appena tornato al governo, spiegando che vendendo i beni di famiglia, valutati in circa 1.800 miliardi di euro, si sarebbe potuto «azzerare» la tremenda esposizione dello Stato italiano, oggi non è più nemmeno vero. Perché se quella valutazione può essere considerata ancora attendibile, il debito pubblico, è l’amara realtà , l’ha invece ormai superato di quasi un centinaio di miliardi.

Certo, vendere i beni pubblici «non è facile», come un giorno ha ammonito il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Il suo predecessore Vincenzo Visco confessò a Orazio Carabini, allora al «Sole 24ore», tutta la propria frustrazione per non essere riuscito a vendere le caserme inutilizzate dell’esercito per colpa del ministero della Difesa che gli metteva i bastoni fra le ruote. Le caserme…Quante volte, a parole, sono state vendute?

Nel 2002 Tremonti disse che era stato «incivile» non aver pensato di valorizzare adeguatamente un patrimonio «che impaurirebbe perfino Paperon de’ Paperoni». Due anni prima, annunciando di aver trovato un «buco» nei conti pubblici lasciati dal centrosinistra, aveva snocciolato la sua ricetta: «Bisogna operare dentro il patrimonio dello Stato con valorizzazione del patrimonio stesso, estrazione di dividendi, smobilizzo di risorse, accelerazione di privatizzazioni». Come si poteva dargli torto? Se nel 1988 il rendimento dei beni demaniali era stato dello 0,05%, quindici anni più tardi avrebbe raggiunto una vetta dello 0,72%.

Ma se le intenzioni erano ottime, lo stesso non si potè dire per i risultati. Fra annunci, dichiarazioni e pubblicazione di sterminati e dettagliatissimi elenchi di beni demaniali decretati «cedibili», con l’inevitabile strascico di polemiche, quell’epoca sarà  ricordata soprattutto per la cessione degli immobili degli enti previdenziali attraverso le famose cartolarizzazioni, sulle quali pende un giudizio poco lusinghiero della Corte dei conti. Pasqualucci ha tirato queste somme: «L’operazione, a fronte di un portafoglio di 129 miliardi, ha fruttato ricavi per 57,8 miliardi, con un rapporto ricavi/cessioni pari al 44,7%». E sarebbe meglio non ricordare, per carità  di patria, il clamoroso fallimento dell’operazione Patrimonio spa, ovvero la società  che era stata creata dal Tremonti, il quale l’aveva affidata a Massimo Ponzellini, proprio allo scopo di valorizzare e cedere i beni dello Stato, come ad esempio le vecchie carceri nel centro delle città . Missione penosamente fallita.

Per non parlare di quello che è accaduto talvolta in periferia, quando gli enti locali hanno deciso di vendere. Per tutte valga la vicenda delle cessioni dei beni dell’Arsial, agenzia della Regione Lazio che un paio d’anni fa ha deciso di dismettere alcuni importanti cespiti. Fra questi una tenuta di 37 ettari con due casali di 400 metri quadrati nell’oasi naturalistica di Capocotta, a due passi dalla residenza presidenziale di Castelporziano: finita per la modica cifra di 483 mila euro, prezzo appena sufficiente per acquistare un appartamento decente nella periferia romana, a una società  nella quale compare l’azionista di una ditta appaltatrice della stessa Regione.

Ma non basta. Perché lo Stato che avrebbe dovuto dimagrire vendendo i propri immobili, invece ingrassava comprando a rotta di collo, indifferente al nostro debito che si gonfiava sempre di più. Comprava Fintecna, società  pubblica erede dell’Iri che si è trovata in pancia di tutto: dai palazzi delle Finanze a un ex ospedale di Genova, e ora non sa più a chi dare tutta quella roba. Compravano gli enti locali. Comprava Palazzo Chigi, comprava il Senato, comprava la Camera. Nel quinquennio dei due precedenti governi Berlusconi non si badò certamente a spese. E mentre i palazzi della politica si moltiplicavano allagando il centro di Roma, dove le sedi della presidenza del Consiglio e delle due Camere sono ormai 52, si privatizzava soprattutto a parole.

Pochi giorni prima delle Politiche del 2008, Berlusconi dichiarò a «Porta a Porta»: «Dalla vendita del patrimonio dello Stato avremo a disposizione un punto di Pil l’anno per la riduzione del debito pubblico del nostro Paese entro i limiti richiesti dall’Europa».

Qualche mese prima il suo futuro avversario, Walter Veltroni, l’aveva anticipato: «Esiste la necessità  di vendere il patrimonio immobiliare pubblico attraverso processi più efficaci e veloci di quelli finora messi in campo al fine di dare un contributo immediato alla riduzione dello stock del debito».

Vinte le elezioni, il Cavaliere tornò alla carica a Santa Margherita ligure, davanti alla platea dei giovani imprenditori: «Abbiamo ereditato un debito che è al 105% del Pil, c’è un solo modo di operare, cioè mettere sul mercato parte del patrimonio pubblico. Per esempio le caserme nei centri città  che non servono più a nulla». Applausi.

Tre anni dopo il debito pubblico è al 120% del Pil e le caserme sono sempre lì, come le aveva lasciate Visco masticando amaro. E adesso? Adesso è arrivato finalmente il momento di fare «l’inventario». Proprio così. Ha detto Tremonti giovedì al Tesoro, aprendo la riunione sul patrimonio pubblico: «Oggi facciamo l’inventario».


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