Il termometro rotto dei Cds
MILANO — Fino a pochi mesi fa erano da tutti considerati il termometro dello stato di salute di uno Stato o di un gruppo industriale o finanziario: il credit default swap, cioè l’assicurazione comprata sul mercato per proteggersi contro il rischio di insolvenza di un soggetto (Stato o società ) che emetteva un titolo di debito, come appunto un Btp o un altro bond del Tesoro, aveva un valore che era considerato un indicatore più che efficiente e a cui tutto il mercato guardava per regolare le posizioni (e il giudizio) nei confronti del debitore e del sistema in generale. Più saliva, più si accendevano campanelli d’allarme sullo stato di solidità finanziaria dell’emittente; viceversa, un valore basso significava più sicurezza sul ripagamento del debito. Ma adesso le cose cominciano a cambiare, e anche rapidamente.
Di fronte all’esigenza di mettere dei paletti regolamentari ai vari settori finanziari lasciati finora senza controllo (affidati all’autoregolamentazione degli operatori) da un lato le autorità si stanno muovendo per stringere le maglie di questi strumenti, nati agli inizi degli anni Novanta ma esplosi come fenomeno una decina di anni fa. E che si trovano fuori da ogni possibilità di monitoraggio costante in quanto trattati su mercati non regolamentati, (i cosiddetti over the counter): secondo alcune stime, il 95% dei Cds viene trattato da appena quattro grandi banche Usa. Dall’altro, sul mercato si comincia a considerarli sempre meno affidabili e attendibili, in particolare per i debiti sovrani, specialmente adesso che è in gestazione una forma di protezione di ultima istanza dei titoli sovrani in Europa, attraverso il rafforzamento del fondo europeo di stabilità finanziaria, Efsf (European financial stability facillity). E l’antitrust Ue lo scorso aprile, ha aperto due indagini sulle banche che operano in Cds per ipotesi di violazione del mercato.
Ieri sul tema è tornato, fra gli altri, il presidente della Consob, Giuseppe Vegas. Parlando sulla possibilità di un prolungamento dei divieto di vendita allo scoperto dei titoli, ha sostenuto che per raffreddare i mercati possono essere prese altre iniziative come sui Sds e gli high frequency trade (sistemi che ripetono operazioni di acquisto e vendita in Borsa varie volte al secondo). Anche a livello europeo il dibattito è in corso, in particolare sui Cds «nudi», cioè quei contratti in cui nessuna delle due parti possiede il sottostante al momento della stipula. In particolare alcuni paesi guidati dalla Germania vorrebbero portare le restrizioni fino al divieto, mentre alcuni Paesi, in primo luogo l’Italia, temono che ciò renda impossibile una gestione ottimale del debito pubblico.
«I credit default swap sui crediti sovrani non hanno alcun tipo di significato» sostiene il banchiere Marco Mazzucchelli, presidente dell’advisory board di Royal Bank of Scotland per l’investment banking «perché il mercato è viziato da una asimmetria di fondo: sono strutturalmente molti di più i soggetti che devono comprare protezione che i venditori, e dunque inevitabilmente il Cds tratterà a un valore più alto rispetto allo spread del titolo di Stato sottostante». I compratori di protezione sono proprio le banche che entrano in rapporto con il Tesoro dei vari Stati emittenti, che per coprirsi dal rischio (in quanto operano su quei titoli con altri soggetti finanziari) comprano appunto Cds. È un aspetto tecnico, ma fondamentale per capire come si muovono questi strumenti e perché di fatto siano poco significativi: «Il Cds non è il risultato, l’espressione genuina dell’equilibro tra domanda e offerta, perché il suo valore è sempre viziato dall’eccesso di domanda di chi compra protezione rispetto all’offerta di chi la vende».
In effetti, se si guardano in parallelo l’andamento degli spread dei titoli pubblici di Italia, Francia, Spagna, Germania e Grecia (anche se quest’ultima è un caso a sé visto che i valori sono schizzati anche a venti volte gli altri Paesi in quanto indicano un rischio enorme di default) e dei Cds sugli stessi titoli, si vede che non si muovono in modo uniforme. Il rischio continua a salire anche di fronte a rendimenti reali oscillanti (Italia o Spagna) o addirittura decrescenti (Germania). Paradossalmente anche Paesi più virtuosi come Francia e Germania vedono i loro cds salire proprio perché lo sviluppo dell’Efsf potrebbe costituire un pericolo per quegli Stati, che pure sono virtuosi dal punto di vista finanziario visto che i loro spread sono in calo. Ieri comunque grazie alle attese sul fondo salva Stati, il costo per assicurarsi contro il default dei titoli di Stato è sceso: il Cds a 5 anni sull’Italia di 28 punti base (pb) a 475 punti base, quello sulla Spagna di 18 pb a 380 punti base, quello sulla Francia di 17 pb a 179 e quello del campione d’Europa, la Germania, di 5 pb a 104 punti base.
«Si deve considerare anche che ci sono forti pressioni da parte delle autorità affinché l’Isda, l’organizzazione che riunisce i partecipanti ai mercati over the counter, non consideri un eventuale default controllato della Grecia un evento che fa scattare le protezioni tipiche del Cds. E se sarà così, allora è chiaro che i cda hanno un valore assolutamente nullo perché non coprono nulla» continua Mazzucchelli. «Peraltro rappresentano solo una percentuale di debito (sull’Italia circa 307 miliardi di dollari a fronte di un debito di circa 1.900 miliardi di dollari, ndr) e poi sono scambiati quotidianamente per volumi molto bassi, neanche un decimo dei volumi del titolo sottostante. Meglio guardare a parametri più interessanti e concreti come i cambi, il livello assoluto dei tassi sui titoli di Stato o l’ammontare dei finanziamenti delle banche presso la Bce».
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