Troy Davis giustiziato Il caso divide l’America

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WASHINGTON — «Quella notte non è stata colpa mia, non avevo una pistola». È stata questa l’ultima frase pronunciata da Troy Davis prima di essere giustiziato nel penitenziario di Jackson, Georgia. Parole che puntano dritte a uno dei tre anelli mancanti in questa controversa storia giudiziaria che ha diviso l’America. Gli altri due sono l’assenza di prove forensi forti e tracce di Dna. Tre «buchi» che — secondo molti — avrebbero dovuto portare un verdetto diverso ed evitare a Troy la pena capitale. Invece non è andata così.

È il 19 agosto 1989, Mark MacPhail è un poliziotto che arrotonda lo stipendio come vigilante in un ristorante di Savannah. Nel parcheggio scoppia una lite, l’agente interviene. Qualcuno estrae una pistola calibro 38 e spara: MacPhail muore, lascia moglie e due figli piccoli. Il 23, una delle persone coinvolte nella rissa, Sylvester «Redd» Coles, denuncia alla polizia: l’assassino è Troy Davis. Spuntano nove testimoni che confermano l’accusa ed esami balistici legano questo omicidio a una sparatoria che ha visto coinvolto l’arrestato. Il 30 agosto del 1991 una giuria, composta da sette afroamericani e cinque bianchi, lo condanna a morte. Un verdetto — affermano gli amici di Davis — fondato su un’indagine sbrigativa. L’esecuzione è fissata per il 17 luglio del 2007 ma slitta dopo una grande mobilitazione internazionale che vede intervenire anche il Papa. Accade la stessa cosa in altre due occasioni, con la Corte Suprema che, finalmente, chiede a un giudice federale di rivedere il caso. E ciò che emerge, due anni dopo (siamo intanto al 2010), può dare ragione alla tesi della difesa.

Sette dei nove testimoni ritrattano le accuse. Però non lo fanno in aula. Affermano anche che la polizia ha esercitato pressioni per incastrare Troy. Uno aggiunge: sono analfabeta e mi hanno fatto firmare la mia dichiarazione senza essere in grado di poterla verificare. Ancora. A un teste è stata mostrata la foto di Davis prima del classico riconoscimento all’americana, con i sospetti allineati lungo una parete. Infine c’è l’accusatore numero uno, Coles. Si scopre che, all’epoca del delitto, possedeva una pistola dello stesso calibro di quella usata nel delitto. Lui non lo nega ma afferma: l’avevo data a un amico proprio quella sera. Poi spunta fuori una donna che partecipa a una festa insieme a Coles. L’uomo è ubriaco e confessa l’uccisione di MacPhail.

Per gli avvocati di Davis si apre uno spiraglio. E loro insistono. Il giudice, invece, è convinto della fondatezza dell’indagine. Inoltre non ammette gli elementi perché Coles non è stato citato nella lista dei testimoni. Questioni di procedura e — come sottolinea qualche esperto — errori nella difesa rendono difficile la presentazione di nuove prove.

Nel marzo di quest’anno la Corte Suprema, incurante di una nuova campagna di mobilitazione, conferma la sentenza. Alle 22.53 di mercoledì hanno iniziato a iniettare il veleno nel braccio di Davis. Quindici minuti dopo era finita. Per la famiglia dell’agente MacPhail giustizia è fatta. Chi ha creduto alla parole di Troy ritiene, invece, che sia stato compiuto un errore mostruoso. Ma che non ferma il boia. Quasi nelle stesse ore hanno eseguito in Texas la condanna a morte di un omicida razzista.


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