Accuse a Tremonti: assenza vergognosa
ROMA — La giornata dell’ordalia su Berlusconi — se cade Milanese, cade anche lui, era l’opinione diffusa — si trasforma fin dal mattino in quella del processo a Giulio Tremonti. È infatti il ministro dell’Economia, assente al voto della Camera che doveva decretare la libertà o l’arresto del suo braccio destro, a salire sul banco degli imputati, accusato dai suoi stessi colleghi di partito e di schieramento di «insensibilità », «egoismo», «disumanità », perfino di «immoralità ». «Noi ci abbiamo messo la faccia, lui dov’è?», sbotta alla Camera dopo il voto il capogruppo leghista Marco Reguzzoni, mentre Daniela Santanchè esce livida dall’Aula: «La sua assenza è umanamente vergognosa!».
Perfino un solitamente accorto Massimo Corsaro protesta: «È vero che non è andato a giocare a bocce, ma io avrei fatto di tutto per spostare i miei appuntamenti», mentre Guido Crosetto ci va giù duro: «L’assenza del ministro è un forte indicatore di quanto vale l’uomo», perché per dirla con Antonio Martino «doveva esserci, se non altro per testimoniare che aveva a cuore le sorti del suo principale collaboratore». Insomma, sintetizza Osvaldo Napoli «dopo questa giornata, non si può dire che Tremonti sia più amato nel Pdl, anzi…».
Lui, Tremonti, della bufera che lo investe si rende conto solo a sera, quando atterra a Washington dopo un lungo volo. Fanno scudo i suoi collaboratori: «È una polemica insensata: aveva una riunione nel pomeriggio alle 17 (le 23 in Italia) e una pre-riunione del G20 alle 19.30, come faceva a non partire? Chi andava al posto suo? Se avesse votato avrebbero detto che lo faceva per proteggere se stesso, e invece ha preso un aereo di linea in mattinata e sia Berlusconi che Letta sapevano benissimo che sarebbe partito, e che avrebbe dovuto disertare anche il Consiglio dei ministri». Altra decisione questa che ha fatto infuriare mezzo governo, perché non è andato giù ai ministri approvare la correzione del documento di programmazione economica a scatola chiusa, senza nemmeno l’illustrazione da parte del titolare dell’Economia.
Tanta ira è tracimata anche al vertice di maggioranza che si è tenuto all’ora di pranzo a palazzo Grazioli: come un sol uomo, capigruppo, ministri, coordinatori, hanno praticamente scongiurato Berlusconi di riprendere lui la guida dell’economia: «Non è possibile che il decreto per la crescita se lo faccia Tremonti da solo e noi qui a guardare», perché sul territorio alla fine «ci andiamo noi, alle elezioni ci giochiamo tutti tutto, dobbiamo avere voce in capitolo». Per questo l’invocazione è quella di costituire una sorta di «task force» a palazzo Chigi per affrontare il capitolo del taglio del debito, e assieme far partire tavoli di maggioranza — a livello di gruppi parlamentari — che dovranno partorire proposte e provvedimenti per la crescita e lo sviluppo che Tremonti dovrà accettare.
«Basta con l’uomo solo al comando, adesso si passa alla collegialità » è stato il grido di battaglia del vertice lanciato dal Pdl unito, con la Lega che — pur non partecipando direttamente all’assalto — non si è nemmeno opposta ai discorsi sulla necessità di un ridimensionamento del ministro.
A cosa porterà tanta pressione però è tutto da vedere: è chiaro, dicono i fedelissimi del premier, che spingere Tremonti alle dimissioni sarebbe rischioso per tutti, e partorire idee e ricette alternative a quelle del ministro non sarà una passeggiata. Perché se sulla necessità di andare a «privatizzazioni e dismissioni» del patrimonio statale sono d’accordo tutti, già sulle pensioni la Lega non va oltre una timidissima apertura. E tra due settimane sarà il momento del varo del decreto sviluppo: «Se dobbiamo battere un colpo — dice un big del Pdl — è questo il momento per farlo».
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