Le due Americhe
NEW YORK. Christine Lagarde del Fmi lancia l’allarme su una crisi che può «creare 44 milioni di nuovi poveri nel mondo». C’è un luogo dove questo pericolo è già diventato realtà . È la nazione (ex) più ricca del mondo, l’America. “Living in poverty”, vivere nella povertà , è il titolo di una serie speciale lanciata dalla Cnn. È il problema quotidiano per 46 milioni di cittadini degli Stati Uniti. Tanti sono, secondo il Census Bureau, gli americani scesi sotto la soglia della povertà , 11.139 dollari di reddito annuo per un single o 22.314 per un nucleo familiare.
«Sono il 15% dei nostri connazionali, è un livello straordinariamente elevato, stiamo entrando in un paesaggio sociale pre-anni Sessanta» dice Alice O’Connors della University of California-Santa Barbara. Il riferimento agli anni Sessanta vale per diverse ragioni. Il 1964 è l’anno dell’ultima grande riforma di sinistra, la Great Society di Lyndon Johnson, che propone la “guerra alla povertà ” come sfida nazionale. Gli anni Sessanta sono anche un era di rivolte in tante metropoli americane, evocati di recente dal sindaco di New York Michael Bloomberg che teme una rinascita di tensioni. Gli anni Sessanta sono infine la “casella di partenza” alla quale molti americani sono tornati. Perché a fianco all’aumento dei poveri l’America vive un impoverimento del ceto medio. Se prendiamo il reddito “mediano” e cioè quello della categoria più numerosa (la definizione di ceto medio per eccellenza), oggi il dipendente maschio adulto guadagna 48.000 dollari annui, in termini reali lo stesso potere d’acquisto dello stipendio mediano nel 1969. Sulla percezione del proprio status pesa l’allargamento delle diseguaglianze. Basta passare nella categoria sopra i 100.000 dollari di reddito annuo, e qui secondo il Census Bureau “gli effetti della recessione scoppiata nel 2008 sono già stati riassorbiti, il potere d’acquisto è tornato ai livelli pre-crisi”.
La divaricazione tra le due Americhe diventa ancora più stridente se ci si concentra sulla punta della piramide. Prendiamo il 2% dei maschi adulti che stanno in cima alle classifiche degli stipendi. Ebbene, in confronto al reddito mediano che è tornato ai livelli del 1969, rispetto a quell’anno gli americani al top hanno visto aumentare i propri guadagni del 75%. Ancora più su troviamo la Top 400, la lista Forbes dei Paperoni d’America. I 400 miliardari hanno visto la loro ricchezza salire del 12% quest’anno. Questa esasperazione delle diseguaglianze non ha precedenti in America dagli anni Venti, un periodo di capitalismo predatore, che sfociò sul crac del 1929 e sulla Grande Depressione. Dalla fine della seconda guerra mondiale le diseguaglianze sociali “estreme” erano tipiche di paesi meno sviluppati: dall’India all’America latina.
Come si spiega che gli Stati Uniti siano diventati la società diseguale per eccellenza? Dov’è finito l’American Dream, il sogno di una mobilità sociale in ascesa che doveva sollevare tutti verso un tenore di vita decoroso? Una chiave d’interpretazione me la fornisce Robert Reich. Docente all’università di Berkeley, già ministro del Lavoro durante la presidenza di Bill Clinton, Reich è un punto di riferimento della sinistra democratica. Di recente ha pubblicato “Aftershock, il futuro dell’economia dopo la crisi” (in Italia da Fazi editore). «Una causa – mi dice Reich – è l’indebolimento del movimento sindacale americano. Rispetto agli anni Sessanta quando organizzavano oltre un terzo del mondo del lavoro, oggi nel settore privato i sindacati rappresentano appena il 7% dei dipendenti. E l’offensiva per indebolirli continua. Dopo il settore privato ora è il pubblico impiego nel mirino della destra, con operazioni come quella avvenuta nel Wisconsin: dove governa la destra viene abrogato il diritto alla contrattazione collettiva». Per Reich la dilatazione delle diseguaglianze rischia di continuare anche in futuro. «Tutto dipende – dice – dalla ripartizione della ricchezza, quanta parte andrà ai profitti e quanta parte al lavoro».
Nell’America di oggi infatti non basta più un lavoro per proteggerti dalla povertà . Lo sottolinea Charles Blow sul New York Times guardando da vicino i dati del Census Bureau: «Tra quei 46 milioni di poveri la maggioranza non sono affatto disoccupati. Anzi i due terzi degli americani che vivono sotto la soglia di sussistenza hanno un posto di lavoro. La metà hanno addirittura un posto a tempo pieno». Questa è la vera campana a morto per l’American Dream, se neanche il lavoro è un’assicurazione contro la povertà . E’ un campanello d’allarme in particolare per i giovani. La caduta di reddito più pesante nel 2010 è quella che ha colpito la generazione tra i 16 e i 24 anni: meno 9%. Il 45% della fascia compresa tra i 25 e i 34 anni si trova sotto la soglia della povertà , ed è aumentato del 25% il numero di coloro che devono abitare sotto lo stesso tetto dei genitori. Tutta colpa del degrado della scuola? Questa è una tesi molto diffusa tra gli esperti. La sposa un celebre rapporto McKinsey intitolato “L’impatto economico del divario di risultati nelle scuole d’America”. Rilancia questa tesi un saggio in uscita il mese prossimo, a firma del presidente di Gallup, Jim Clifton. Con il titolo “La prossima guerra del lavoro”, Clifton illustra uno scenario di competizione globale in cui i colossi emergenti, Cina in testa, surclasseranno l’Occidente nell’unica guerra che conta: quella per generare milioni di nuovi posti qualificati e ben remunerati. Anche Clifton accusa gli Stati Uniti di avere accumulato ritardi nella formazione, soprattutto al livello della scuola superiore. Non tutti concordano, però. Il premio Nobel dell’economia James Heckman sostiene che l’ossessione sulla formazione professionale ci sta portando fuori strada. Gordon Lafer dell’università dell’Oregon si spinge fino a denunciare «l’impostura del dibattito sulla qualità dell’apprendimento, che in fin dei conti sposta la responsabilità sui lavoratori: sono troppo poco istruiti, ecco perché non trovano lavoro, dunque la colpa non è certo delle imprese americane». Altri hanno indicato che la vera radice delle diseguaglianze americane è politica. “Winner-Take-All Politics”, come l’hanno definito Jacob Hacker e Paul Pierson, è un sistema politico squilibrato in favore delle lobby del denaro: produce regole fiscali che aumentano le diseguaglianze, un’imposizione “regressiva” che redistribuisce alla rovescia. Ma quando Barack Obama ha provato a mettere all’ordine del giorno una tassa sui milionari, per riportare il sistema fiscale a un minimo di equità , la destra gli ha risposto con il vecchio slogan di Ronald Reagan: «Questo è incitamento alla lotta di classe, è socialismo». La forza d’intimidazione di questa cultura di destra spiega forse il vero mistero americano: malgrado i timori di Bloomberg, pur all’apice delle diseguaglianze non ci sono in questo momento veri movimenti di protesta di massa.
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