Calderoli accusa i «fratelli coltelli» Maroni sceglie il basso profilo

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VENEZIA — La prima fotografia si può scattare pochi istanti prima del gran finale, la cerimonia dell’ampolla in cui l’acqua prelevata sul Monviso viene versata in laguna. Di nuovo si alza quel coro: «Ma-ro-ni, Ma-ro-ni…». L’interessato non dice una parola, non fa un cenno, non sorride: scompare. Si lascia inghiottire dalla folla dei dignitari leghisti che affollano il palco sulla Riva dei martiri e non si vedrà  più su quella prima linea che per carica e anzianità  di servizio gli apparterrebbe di diritto.
Il secondo scatto è la ragazza in maglietta verde che respinge le domande dei cronisti: «Non parlo, ci hanno consigliato di non rilasciare interviste». Aggiunge il giovane padano vicino: «Abbiamo avuto la direttiva di parlare solo con Tele e Radio Padania». C’è chi la direttiva non l’ha recepita, ed esibisce un grosso cartello «staccare la spina» con tanto di presa di corrente verde padano.
La terza immagine è per Marco Reguzzoni e Federico Bricolo. Sono i due capigruppo, Camera e Senato. Tengono le braccia conserte, quando devono applaudono. Ma non parlano. Diversamente dal passato, si è ritenuto che non prendessero la parola: «Troppo alto il rischio di contestazioni» sentenzia più tardi un membro del consiglio federale padano. E in effetti, gli unici fischi che risuonano — pochi per la verità  â€” arrivano quando Rosy Mauro spiega che «non è vero che non abbiamo difeso l’età  pensionabile delle donne». La vicepresidente del Senato è infatti identificata, così come i due capigruppo, con quel «cerchio magico» che ha dichiarato guerra, in nome di Bossi, a tutti coloro che nel movimento non si allineano.
Eppure, la verità  è che ormai non c’è cerchio magico, non ci sono maroniani, non ci sono venetisti contro lombardi. Il fatto è che ora la Lega ha paura. Paura che le divisioni interne possano lacerare il movimento come mai è accaduto in passato. Paura che l’abbraccio con il premier, l’innominato, si riveli mortale. Paura che dopo un decennio segnato dall’asse Bossi-Berlusconi, gli elettori comincino a «tirare qualche riga per fare il conto». Paura, soprattutto, di perdere l’antica presa sui militanti: all’inizio dei comizi, la Riva dei martiri è veramente poco affollata. Più tardi si popolerà , sia pure restando ben al di sotto delle passate edizioni. Ma nell’euforia dello scampato pericolo, i leghisti la sparano grossa: «Siamo in 50 mila». Il poliziotto a cui si chiede conferma scoppia a ridere: «E dove ci stanno qui cinquantamila persone?». La questura non fornisce dati. Anzi, non conferma una prima stima di 10 mila presenze.
Certo, c’è chi non rinuncia a tuonare. Roberto Calderoli, per esempio. Se la prende con i «fratelli coltelli, quelli più bossiani di Bossi. Dicono e cantano fuori dal coro e così hanno spazio sui giornali. A questi dico che senza Bossi non sarebbero nulla». Un po’ contradditorio, se si vuole, con la sua tesi dei «giornalisti che si inventano le nostre divisioni». E c’è anche chi continua, proprio come Calderoli, a prendersela con i sindaci che hanno criticato la manovra. Un assessore di Lesmo, Flavio Tremolada, sbuffa: «C’è qualcuno che ha perso l’idem sentire. Visto che finalmente si torna a parlare di secessione, non c’è più posto per i sindaci con la fascia tricolore e i presidenti del consiglio leghisti». Sistemato anche Maroni. A proposito dei sindaci, si può aggiungere un’altra foto: quella di Flavio Tosi da Verona e Attilio Fontana da Varese — i più esposti contro i tagli delle ultime manovre — che non salgono sul palco finché parla Calderoli. Lo fanno solo quando il ministro alla Semplificazione lascia il microfono. Chi può permettersi d’ignorare la rigida disciplina di partito è Giancarlo Gentilini, prosindaco di Treviso, l’acclamato sceriffo della Lega di un’altra stagione, ieri non era a Venezia. A chi gli chiede il perché, dice chiaro: «Ho reclami, lagnanze dal mio popolo leghista e non voglio essere il capro espiatorio della politica. Io non sono un politico e ho un mandato: amministrare».


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