Velo integrale e sharia La nuova Libia sognata dai gruppi integralisti

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L’organizzazione è nata a Bengasi, come la rivoluzione che ha deposto Muammar Gheddafi dopo quarantadue anni. «Non siamo un partito e non vogliamo diventarlo», ripetono i fondatori. Che discutono di democrazia e modelli di Stato — la Turchia guidata da Recep Tayyp Erdogan è considerata troppo laica — e apprezzano quell’articolo determinativo inserito nella Costituzione provvisoria: le norme islamiche sono «la» fonte principale della legislazione, invece dell’indistinto «una delle» che avrebbero preferito alcuni ministri del nuovo governo.
La scelta è approvata anche da Salwa el-Deghali, l’unica donna rimasta nel Consiglio nazionale di transizione: «La Libia è un Paese musulmano e le istituzioni della nazione verranno consolidate attorno all’islam moderato». Sei giorni fa, nel primo discorso dall’arrivo a Tripoli, il presidente Mustafa Abdul Jalil ha ripetuto che non accetterà  nessuna «forma di ideologia estremista, né da destra né da sinistra».
I ribelli che hanno assaltato le ville dei figli di Gheddafi hanno requisito bottiglie di vodka e di whisky, quel Johnny Walker etichetta nera simbolo di status in tutto il Medio Oriente. Quello che era ammissibile per Saadi, Hannibal e gli altri fratelli non lo è nei negozi o nei ristoranti di Tripoli e Bengasi. La famiglia di regime — malgrado l’imponente moschea ancora in costruzione voluta da Safiya, la seconda moglie del Colonnello — conduceva una vita ben lontana dalle famiglie libiche, che restano molto tradizionaliste e conservatrici. I predicatori come Ali Sallabi non sentono il bisogno di discutere della sharia, perché sanno che è già  accolta dalla società . «Questa è la rivoluzione del popolo — dice al quotidiano New York Times — e il popolo è musulmano. I laici possono partecipare alle elezioni, vedremo chi vince. Se una donna diventasse presidente, siamo pronti ad accettarlo».
Sembra convinto della forza del partito che ha deciso di fondare. Non ha ancora un nome, ma già  contende il potere a Mahmoud Jibril: il primo ministro — urla lo sceicco nei comizi e via satellite su Al Jazira — non può restare altri otto mesi. «Sta piazzando gli amici e i parenti nei posti chiave. Non vogliamo ritornare alla dittatura». Nel 2005 è stato Sallabi a negoziare con il regime un programma di riabilitazione per i miliziani fondamentalisti del Gruppo combattente islamico libico. Saif, il primogenito del Colonnello, si era accorto della sua influenza e aveva deciso di trattare con lui.
Il consiglio di transizione, sparpagliato in queste settimane tra la capitale e l’est del Paese, si riunisce oggi a Bengasi proprio per discutere delle pressioni che arrivano dalle formazioni islamiste. Jalil deve convivere con il potere armato di Abdel Hakim Belhaj, il veterano jihadista nominato governatore militare di Tripoli per acclamazione dei suoi miliziani. E con il potere ombra di Etilaf, uno dei gruppi religiosi dominanti in città . Agisce come una guida rivoluzionaria del popolo, semi-clandestina. All’inizio del mese ha appeso i suoi manifesti-proclami ai cancelli degli ospedali: «Entro sette giorni tutti gli uffici pubblici devono essere diretti da una persona decorosa».


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