Fisco. Le manette americane

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Tutti ricordiamo la vicenda di Al Capone: il più famoso boss di Cosa Nostra in America fu incastrato non per le stragi di cui era il regista, ma per avere evaso le imposte. La storia di Al Capone non è affatto eccezionale. Accade spesso che la giustizia americana, non riuscendo a “incastrare” su altri reati un politico corrotto, un mafioso, un imprenditore bancarottiere, vada a frugare nelle sue dichiarazioni dei redditi: le sanzioni previste per chi evade sono così severe, che possono funzionare come un “surrogato” sufficiente, nel caso non si riescano a dimostrare altri reati. Le manette agli evasori negli Stati Uniti sono una realtà , non una promessa fallace. E nessuno considera che si tratti di una punizione eccessiva. Altro caso celebre fu quello di Leona Helmsley, ricca vedova che dal marito aveva ricevuto in eredità  un impero alberghiero. Per anni credette di fare la furba e a una cameriera confidò: «Le tasse le pagano i poveracci». Sbagliato: andò a scontare 19 mesi di carcere duro, in un penitenziario federale. Il procuratore che ottenne la condanna, un certo Rudolph Giuliani, ebbe cura che il suo ingresso in carcere avvenisse un 15 aprile: il giorno canonico per la presentazione della dichiarazione dei redditi. Lo spettacolo della Helmsley in carcere fu confortante per la maggioranza degli americani che fanno il proprio dovere fiscale.
Il carcere e le altre sanzioni severe però non spiegano interamente la differenza tra America e Italia. Le sanzioni penali americane sono assortite da sanzioni “sociali” altrettanto importanti. Non a caso negli Stati Uniti non è considerato disdicevole, ma anzi un dovere civico, segnalare al fisco gli evasori. E le spiate hanno un seguito, sono una fonte importante di recupero di gettito. Al punto che l’Internal Revenue Service (il fisco Usa) prevede per gli informatori dei premi in percentuale sul gettito recuperato all’evasore. Le spiate più efficaci vengono dall’interno delle aziende, spesso sono impiegati della contabilità , già  esperti di tasse, gli informatori più preziosi per lo Stato. Alcuni hanno guadagnato una fortuna: fino al 20% dell’imposta evasa dai loro datori di lavoro. Immagino le obiezioni che verrebbero sollevate in Italia, più o meno in buona fede: c’è chi griderebbe alla “delazione incentivata”, chi si spaventerebbe di fronte al rischio che le spiate al fisco siano strumenti di vendette personali, ricatti e ritorsioni varie. Ma non abbiamo usato anche noi come gli americani i “collaboratori di giustizia” nella lotta alla mafia? Il problema è che in Italia la guerra all’evasione non riscuote lo stesso consenso sociale della lotta alla criminalità  organizzata. E qui si tocca la vera ragione per cui l’evasione è molto meno diffusa negli Stati Uniti, o in altri paesi occidentali.
Nei paesi più civili, dei quali solitamente ammiriamo la disciplina, la legalità , la buona educazione, tutti questi comportamenti virtuosi sono diffusi perché agisce un potente “conformismo civico”. Più della paura della polizia o del giudice, è il giudizio dei vicini di casa che spinge tanti americani a pagare le tasse, a rispettare le regole. La chiamano Peer Pressure ovvero “pressione dei propri simili”. Tina Rosenberg, vincitrice di un premio Pulitzer, nel suo libro, Join the Club, cerca di distillare dalla sua esperienza delle lezioni proprio sul tema della “pressione sociale” che può cambiare noi stessi, e il corso degli eventi. La lezione della Rosenberg è che la qualità  della società  in cui viviamo non è tanto il risultato delle leggi, dei governi, dei leader che ci amministrano. Molto dipende da fattori comunitari: dall’interazione fra noi, dal “conformismo buono” che genera fiducia, onestà , responsabilità , solidarietà .


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