La scuola raccontata dai soliti cliché
I libri che hanno lasciato immagine duratura della scuola compaiono tardi nella letteratura italiana, spia della sufficienza con cui le classi dirigenti consideravano un’istituzione venuta a sconvolgere un fatto tradizionalmente risolto nell’ambito delle mura domestiche, descritto in autobiografie come I miei ricordi (1867) di d’Azeglio o Ricordi di gioventù (1904) di Visconti Venosta. Le «scolette» dei rudimenti non erano cosa di cui valesse la pena scrivere, se non per mettere in burla il maestro, considerato mestiere per chi non sapeva far altro: «Solo persone che per difetto di animo o di corpo erano escluse dalle altre professioni ed uffizi sociali si fecero istruttori del popolo» (Descrizione di Genova e del Genovesato, 1846). Le basi dello stereotipo del maestro eran gettate: uomo trasandato pieno di manie.
Ne tentò il riscatto De Amicis e il suo «signor Perboni» può essere antipatico, non caricatura. Sull’onda del successo di Cuore (1886) si moltiplicarono gli imitatori, con risultati modestissimi e ripetitivi, né migliore fortuna ebbe Mantegazza con Testa (1887), il più ambizioso tentativo di «anticuore», nel vagheggiare un anacronistico ritorno all’istruzione familiare con lo zio ingegnere a far da mentore. Cuore apre e chiude un’epoca e condanna la scuola allo stereotipo della maestrina dalla penna rossa, svolazzante e civettuola, «tormentata continuamente dai più piccoli che le fanno carezze e le chiedon baci».
Prolifici silenzi
Collodi, da parte sua, sembra assai scettico: in Giannettino e nei bozzetti descrive maestri uggiosi e scolari «birbe». Comprensibile che il burattino le fugga. Pinocchio (1881) si riscatterà col lavoro manuale, non quello corale del paese delle Api industriose ma quello isolato a cui si accompagna uno studio anch’esso solitario: «Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere». Emancipazione che suona sconfitta della scuola pubblica. E se nel Giornalino di Gian Burrasca (1907) la scuola semplicemente non esiste perché l’esperienza del collegio è puro espediente, e i direttori sono caricature grossolane, il Piccolo Alpino (1926) che dalle vette innevate commenta «Se i miei compagni di scuola, sempre pallidi e malaticci, mi vedessero!» raccoglie l’atavico disprezzo (o paura) delle dittature per la cultura. Quanto alla scuola fascista, non ebbe un suo romanzo a meno di non considerar tale quel libro di Stato per la quinta classe, l’ambizioso Il balilla Vittorio, che ebbe successo solo a paragone della miseria letteraria degli altri.
Con il secondo dopoguerra, la scuola, almeno quella raccontata, non c’è più: assorbiti gli sconquassi bellici, operata una nuova integrazione culturale, si introflette a riprodursi in silenzio. Silenzio in verità prolifico, perché occupato dal lavorio degli esperimenti didattici e dai pedagogici ripensamenti del lavoro del docente; ed è proprio l’insegnante a prender la penna: Paesi sbagliati, Pietralate, Barbiane. Stagione di splendida fioritura di progetti e esperienze venata dal caustico pessimismo di quel maestro di Vigevano (1963) che irrompe con rabbioso sarcasmo a denunciare i rischi del didattichese, contrappeso alle speranze blandite dalle facili rime delle filastrocche di Rodari e un po’ ingenuamente rivelate da Cipollino (1959) per il quale nel nuovo paese dei balocchi «la scuola è il gioco più bello».
Poi gli insegnanti scoprono il gusto di scriversi addosso e compaiono florilegi abili nel tradurre in lazzi la fine dell’utopia; le parole d’ordine della contestazione e dell’antipedagogia sono rovesciate o diventano caricatura e l’indignazione civile dei bambini di Lucia Tumiati in Una scuola da bruciare (1973) si trasforma in godimento per le sgangherate composizioni di scolari apprezzate per «l’allegria scanzonata e struggente nel suo candore sottoproletario» in Io speriamo che me la cavo (1990) di Marcello D’Orta
Una interminabile adolescenza
Alla scuola di Pinocchio come a quella di Giannino Stoppani sfuggiva il controllo degli scolari e solo l’eccezionale abilità nell’abbattere i mosconi in volo garantisce al maestro Mosca l’ammirato rispetto dell’ammutolita scolaresca (Ricordi di scuola, 1940). Poi un onnivoro pedagogismo si butta sul problema affinando da un lato le tecniche di interpretazione e manipolazione dei comportamenti scolari e moltiplicando dall’altro le figure di controllo. Il vecchio «maestro» era colpito a morte: la sua scuola può sopravvivere solo nel mondo di Harry Potter (1997) dove i molti insegnanti si dividono vizi e virtù e dove i saperi magici hanno utilità immediatamente evidente.
Comincia il romanzo dell’interminabile adolescenza. In effetti, alla scuola secondaria è mancato un compendio nazionalpopolare come Cuore, romanzo della scuola dove ricchi e poveri avrebbero dovuto imparare a riconoscersi e a condividere lodevoli sentimenti. L’esperienza del liceo, scuola secondaria per eccellenza, si riflette nelle pagine di chi l’ha vissuta e si sente élite colta, come momento di «individuazione», di formazione delle scelte e di un proprio irripetibile destino. Perciò gli alunni della secondaria potevano tutt’al più ritrovarsi ne L’età preziosa, che De Marchi scrisse quattro anni dopo il libro di De Amicis per guidare i giovani a diventare padroni della propria riuscita.
L’esercizio della nostalgia
Il tenue filo conduttore è fornito da Arturo Pugliesi, alle soglie del liceo. Assente la coralità della classe: qualche amico, qualche compagno ma per sottolineare il divergere delle strade in rapporto alla condizione economica delle famiglie: il figlio di un commerciante in granaglie si dedica agli studi tecnici, quello a cui muore il padre diventa impiegato, il rampollo di un «ricco agricoltore», d’ingegno ma di «stoffa grossa», va a finir male tra «giornalacci», politica e miscredenza. Senza avere la compattezza del Cuore, e appesantito da un confessionalismo che lo rende meno generalmente fruibile, anche L’età preziosa è stato a lungo un piccolo classico, capace di ritrasmettere stereotipi che sembrano sfidare il tempo – innanzi tutto la valutazione dello scarto tra il passato e il presente: nel ricordo, l’antico è sempre migliore.
De Marchi non poteva, lui milanese, rimpiangere troppo l’imperial regio liceo: ma non manca l’accenno a «questi tempi facilitoni», in cui si crede di aver imparato l’arte senza il faticoso esercizio che una volta si sapeva necessario. Anche quando, come accade a Saba (Ricordi-Racconti, 1956), la scuola secondaria è stata matrigna al giovane alunno e con un giudizio tagliente ha rischiato di comprometterne il futuro, c’è in quella scuola qualcosa che poi si è perso e su cui la memoria si sofferma con un’ombra di stupito rispetto: «Dio mio, come tutte le cose venivano, in quegli anni ed in quella scuola, prese sul serio!».
E che dire dei professori e del loro sofferto confronto con gli alunni? De Marchi vedeva il professore ridotto a «funzionario pagato a vendere la merce sua»: «l’uomo mal vestito che siede innanzi a voi, o giovinetti», se non riesce a godere della stima degli alunni, fa «un mestieraccio»; mal pagato, se è severo lo si critica perfino sui giornali, se indulgente scatena negli studenti l’istinto dell’ «orda selvaggia», e gli scherzi crudeli diventano incontrollabili. Se però ottiene il rispetto affettuoso degli alunni l’insegnamento «è una dignità che nobilita». Scrivendo dei tempi della propria giovinezza, gli scrittori non sono teneri con gli insegnanti. Spesso raccontano incompetenze, manie, vezzi penosi; ma accanto agli incapaci e ai falliti quasi sempre c’è un maestro la cui severa e colta umanità segna il carattere e il futuro dello studente.
Chi ha frequentato la scuola dei colti è raro che non cada nella tentazione di vedere aggravati dai segni della decadenza i topoi intorno a cui gioca l’immagine della scuola secondaria: la scuola è immancabilmente «più facile» per i nuovi arrivati, sempre più numerosi e meno selezionati. Oggi poi si può scaricare l’origine dell’accelerata decadenza su un Sessantotto di comodo, utile a rimodellare lo stereotipo del nuovo professore e del nuovo studente. Anche qui sociologismi approssimativi hanno picchiato duro: se gli studenti di Porci con le ali (1976) sfiorano la scuola, assai più preoccupati dei loro rapporti sessuo-politici che del latino, il modello ha fortuna: d’ora in avanti gli adolescenti saranno individui psicologicamente incerti, alla spasmodica ricerca di gratificazioni immediate in primis sentimentali (Notte prima degli esami, 2006).
Ben più ampio è il quadro costruito pezzetto dopo pezzetto da Domenico Starnone che coglie con bonaria cattiveria i postumi dell’ubriacatura sessantottina e fotografa gli stereotipi della nuova scuola (Ex cattedra, 1985). Non sono tanto i personaggi, spesso volutamente macchiette, a innovare la galleria antica dei pupazzi, quanto lo spostamento di attenzione dalla scuola come istituzione allo studente e ai rapporti interpersonali. Ciò che una volta era appena accennato ora viene spiattellato e i professori vestono i panni del terapeuta, confessori spirituali di anime scostanti e refrattarie che tuttavia implorano di essere comprese, rassicurate e, se possibile, convertite alla cultura (La collega Passamaglia, 2001, Fuori classe, 2011)
Scarto di generazioni
Accanto ai ragazzi di Starnone si collocano i velleitari studenti di Figlioli miei, marxisti immaginari di Vittoria Ronchey (1975), giudicati con sufficienza dalla scrittrice dall’alto della sua cultura, e gli studenti «bene» del liceo di Paola Mastrocola che accettano con più o meno gentile condiscendenza l’importuna interruzione della loro vita tutta web e hi-tech, senza soggezione a dichiarare di non aver aperto un libro (La scuola raccontata al mio cane, 2004; Togliamo il disturbo, 2011). Stereotipi irosi di chi vede nei suoi liceali i traditori di una scuola selezionatrice dei bravi – scuola dove, avendo il buon dio distribuito equamente la bravura, i Gianni potrebbero emanciparsi davvero: ma dimentica che i Gianni a quella scuola non arrivano mai.
Gli alunni delle scuole professionali di Lodoli (Il rosso e il blu, 2009) sono chiusi in una lontananza che talvolta appare inaccessibile: amano la televisione, i telefonini, le scarpe firmate; come può raggiungerli la lezione su Leopardi? Al professore che li invita a rimediare l’insufficienza rispondono, in un italiano-romanesco sbrigativo, di non poterlo fare, impediti dal piercing alla lingua oppure perché non vogliono «soffrire neppure un minuto». Si potrebbe ricordare che poche generazioni li dividono dai bambini dei suburbi, «apatici a segno che non si cacciavan neppure le mosche dal naso e dagli occhi», ai quali La maestrina degli operai di De Amicis tentava inutilmente di «penetrare il cuore». Ora frequentano le tecniche o le professionali. E non è peggio.
Tra piercing e Divina Commedia
Ai mutamenti radicali che la scuola ha subito nel corso di due secoli si contrappone la persistenza degli stereotipi dei suoi personaggi che nelle pagine dei romanzi si ripresentano a ogni inizio d’anno con i loro tic, le loro manie, le loro frustrazioni. Il vecchio professore trascurato nell’abito e di raffinata cultura classica, quello che muoveva a compassione i suoi studenti ma li sapeva alzare sulle vette della poesia è da tempo in pensione. Ha lasciato la cattedra a un collega insicuro che si muove goffamente nell’alone di un ruolo sfocato: indeciso se entrare in classe coi piercing al viso o con la Divina Commedia in mano. Né è da tutti l’estro del Robin Williams dell’Attimo fuggente.
Il «nuovo» insegnante sa bene di avere di fronte un pubblico che lo sopporta ma non lo «sente» maestro, e soffre nel constatare che non è la scuola a preparare per i suoi allievi un futuro ritornato nelle mani del potere familiare. Vorrebbe, a volte, solidarizzare con i suoi studenti se non li ritenesse sostanzialmente disinteressati al sapere scolastico. In fondo, forse, pesa su di lui l’antico stereotipo: di essere divenuto istruttore del popolo «per difetto di animo o di corpo».
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PROSPETTIVE
In viaggio su e giù per l’Italia tra gli studenti di oggi e di domani
Parlare di scuola senza cadere negli stereotipi e nelle banalità è, a quanto pare, piuttosto difficile, per lo meno in Italia. Non così, per esempio, in Francia, dove Daniel Pennac – appassionato insegnante per quasi trent’anni ma anche, a suo tempo, allievo svogliatissimo e riottoso – ha saputo descrivere (in «Diario di scuola», Feltrinelli 2010) la vita in classe, il rapporto tra studenti e insegnanti, il ruolo dei genitori, evitando con cura ogni facile bozzettismo. Anche da noi, comunque, non mancano i tentativi di osservare la vita scolastica in modo meno stantio ma forse, quanto e più dei romanzi, per rinfrescarsi le idee sulla realtà di una istituzione che direttamente o indirettamente riguarda milioni di persone, è utile sfogliare alcuni testi che cercano di fotografare l’evoluzione della scuola negli ultimi anni. È questo il caso di «Una scuola da rifare» del maestro e scrittore Giuseppe Caliceti (Feltrinelli 2011, pp. 252, euro 15) che contiene tra l’altro il decalogo di una possibile «scuola che verrà » (e che dovrebbe essere, innanzi tutto «laica, gratuita, libera, solidale», oltre che accogliente, proiettata verso il futuro e infine – ma è la cosa più importante – «senza paura di sbagliare e senza fretta»). Ed è la «scuola che verrà », ma anche quella che già abbiamo sotto gli occhi ma non sempre riusciamo a vedere, la scuola multiculturale descritta da Vinicio Ongini in «Noi domani», appena uscito da Laterza (pp. 171, euro 15): un viaggio su e giù per l’Italia intessuto di dialoghi con bambini, ragazzi e insegnanti, capace di farci capire – come scrive Tullio De Mauro nella prefazione – «quanto la scuola ha fatto, sa fare e fa per l’intero paese».
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