L’Europa divisa (anche) sulle centrali

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Non è chiaro quali saranno le conseguenze politiche, a Parigi e in Europa, dell’incidente di ieri a Marcoule: potrebbe essere catalogato come un fatto minore, quasi inevitabile se si vuole garantire al Paese una seria indipendenza energetica. In un mondo ancora scosso dal ben più grave incidente di Fukushima, lo scorso marzo, anche l’esplosione di ieri potrebbe però avere effetti che vanno al di là  di discussioni astratte sull’eredità  avvelenata lasciata dalle ambizioni militar-nucleari della Francia degli anni Cinquanta, quando l’impianto fu costruito.
Il dato di fatto è che il disastro di Fukushima ha cambiato radicalmente le dinamiche interne all’industria atomica in Europa e nel mondo. I casi più radicali sono quelli di Italia e Germania le quali — la prima con un referendum la seconda con una radicale svolta del governo Merkel — hanno rinunciato a un futuro nucleare. Ma lo scetticismo sull’opportunità  di costruire nuovi impianti è ormai andato molto oltre Roma e Berlino. Fino all’inverno scorso, il settore era in piena fase di revival. Al momento dell’incidente in Giappone, a marzo, nel mondo si potevano contare piani per 324 nuovi reattori nel mondo, oltre ai 62 in fase di costruzione, secondo la World nuclear association. Di questi, un quarto in Europa, il resto soprattutto in Paesi emergenti onnivori dal punto di vista energetico.
Da allora, tutti i Paesi europei hanno ordinato una revisione della sicurezza delle loro centrali, gli Stati Uniti hanno in essere due indagini parallele e numerosi Paesi in via di sviluppo stanno riconsiderando al ribasso i loro progetti. La Cina, che ha in costruzione 27 impianti, ha per esempio congelato ulteriori piani (si trattava del 40 per cento dei nuovi reattori pianificati nel mondo). I governi di India e Corea del Sud hanno ordinato test indipendenti. Le resistenze più forti al nucleare, però, sono in Europa e l’incidente francese di ieri darà  loro nuova forza. Anche i contrasti tra i governi della Ue in tema di atomo, venuti alla luce dopo Fukushima, potrebbero rinvigorirsi.
Oltre ai casi di Italia e Germania, la Svizzera ha abbandonato tutti i piani per nuovi reattori e ha deciso di chiudere i cinque esistenti tra il 2019 e il 2034. La Svezia, che nell’estate 2010 aveva abbandonato il divieto di costruire nuove centrali che durava da trent’anni (ne ha dieci in funzione), ha messo in stato di revisione ogni programma. La Finlandia sta discutendo sull’opportunità  di andare avanti con i due reattori progettati (uno è già  in costruzione e quattro sono operativi). Nei Paesi dell’Est europeo, la Bulgaria, la Slovacchia e l’Ucraina stanno costruendo ognuna due reattori ma altri progetti in questi tre Paesi e in Lituania sono stati rallentati dall’incidente giapponese, nonostante la ex Europa socialista abbia un enorme appetito di energia, per alimentare la crescita economica e per svincolarsi dal gas russo. La stessa Russia, che ha in costruzione 11 impianti che si aggiungono ai 32 operativi, almeno a parole sta conducendo test sulla sicurezza del settore. Anche i due Paesi più determinati a procedere sulla strada atomica, la Francia e la Gran Bretagna, hanno dovuto concedere alle opinioni pubbliche e alle opposizioni la completa revisione dello stato delle centrali (Londra per ora mantiene il programma di costruire 11 reattori nuovi in 15 anni, da aggiungere ai 19 esistenti).
Tutto ciò, naturalmente, è teoria. Le ispezioni condotte dai singoli governi, spesso mossi da agende contrastanti, lasciano dubbiosi, vista la storia di scarsa trasparenza che ha accompagnato l’industria del settore (l’ultimo caso è proprio quello giapponese dove, nonostante le rassicurazioni, due terzi della produzione nucleare non sono ancora stati riattivati dopo Fukushima). Persino gli stress test su tutte le centrali della Ue decisi a Bruxelles hanno creato frizioni: sull’eventualità  che le indagini nazionali vengano verificate da esperti terzi, come vorrebbe il commissario all’Energia Gà¼nther Oettinger, e sull’esclusione dalle simulazioni di sicurezza dell’incidente aereo che coinvolge un reattore, come avrebbero invece voluto alcuni governi (per esempio l’austriaco) e le organizzazioni Verdi e antinucleari.
In questo contrasto tra la preoccupazioni per la sicurezza, soprattutto legata agli impianti più vecchi, e la necessità  dei governi di garantire energia, nei mesi scorsi si sono anche registrate tensioni tra governi europei. La Francia si è irritata per la decisione tedesca di uscire dal nucleare senza consultare i partner. Berlino ha espresso a Parigi la propria preoccupazione per la sicurezza di alcune centrali sul confine tra i due Paesi, in particolare quella di Fessenheim, costruita nel 1971.
Ora, dopo l’incidente di Marcoule, il dilemma faustiano si complica. Il sito è candidato a ospitare la nuova generazione di reattori nucleari francesi, più sicuri dei precedenti. Se si tiene conto che dei 432 impianti in funzione nel mondo 265 hanno più di 25 anni, la scelta di rinnovare il settore sembra prudente. Se non si dà  retta all’anima, però.


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POLEMICHE
Gentili accademici, mi dispiace essere incorso nelle vostre critiche, dato che di alcuni di voi nutro la massima stima (di altri non posso, perché, nella mia insipienza, non ho mai letto nemmeno uno scritto). La cosa che più mi dispiacerebbe è però che voi smetteste di comprare o di leggere il manifesto per colpa mia. Per questo cerco di spiegarmi.
Premetto che io Il Capitale l’ho letto e, in gioventù, anche studiato. Però le vostre critiche mi fanno pensare – e solo ora – di non averne capito abbastanza. Un’altra cosa che non capisco – e non lo dico certo per dissociarmi, è che cosa accomuni il mio articolo, oggetto delle vostre critiche, a quello di Loris Campetti. Per cui rispondo solo a ciò che rinfacciate direttamente a me.

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