Il miracolo di Manhattan il ricordo unisce Bush e Obama sul palco dieci anni di storia

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NEW YORK. Per la prima volta insieme qui a Ground Zero. Obama e Bush, uno a fianco all’altro, con Michelle e Laura. Due famiglie presidenziali unite, tutti insieme ad ascoltare i familiari delle vittime che leggono i nomi, sullo sfondo della bandiera a stelle e strisce.
Dieci anni dopo, per un breve miracolo sembra rinascere la stessa solidarietà , la stessa coesione, un’America sola si stringe commossa attorno a due presidenti così diversi. Non era mai accaduto che i due si incontrassero in questo luogo tragico, lo stesso dove Bush indovinò la sua parte migliore, impugnando il megafono sulle macerie del World Trade Center per urlare ai vigili del fuoco: «Io vi sento! Il mondo intero vi sente!». Lo stesso Bush aveva rifiutato, appena quattro mesi fa, l’invito di Obama a venire qui subito dopo l’uccisione di Osama Bin Laden. Ma nel giorno del decennale le divergenze e i sospetti, le incomprensioni e i rancori vengono sospesi di comune accordo.
Perfino lo stile oggi li unisce. Tutti e due scelgono di parlare pochissimo, quasi defilati, tutti e due si affidano a testi antichi. Obama legge dalla Bibbia il 46esimo salmo – «Dio è il nostro rifugio e la nostra forza» – proprio lui che una parte della destra radicale continua a considerare un musulmano. Bush legge «prego il nostro padre nei cieli perché possa addolcire l’angoscia della vostra perdita», così scrisse a una mamma che aveva perso cinque figli nella guerra civile Abramo Lincoln, il presidente della lotta allo schiavismo, proprio quello che Obama cita più spesso nei suoi discorsi.
In questo gioco delle parti si alternano sul palco i due comandanti supremi che hanno guidato l’America nel decennio segnato dalla più grave strage per un attacco straniero sul suolo nazionale, i due presidenti che rappresentano due poli opposti ma la cui eredità  storica è legata all’esito delle stesse sfide. In questo momento così solenne e così mesto, l’ambiguità  si scioglie e la coppia Obama-Bush appare stranamente legata più di quanto l’attuale presidente sia legato al suo predecessore democratico Bill Clinton.
Quando arriva a Ground Zero Bush ritorna ad essere per sempre il presidente dell’11 settembre, l’evento che lo riscatta dal sospetto di illegittimità  (l’elezione rubata, per i brogli in Florida e la scandalosa sentenza della Corte suprema nel 2000), la tragedia in cui trova le parole giuste per toccare il cuore degli americani, l’attacco che in seguito dà  un significato e una direzione ai suoi due mandati: “Guerra globale al terrorismo”. E infatti è per Bush l’unico breve applauso che interrompe la compostezza della cerimonia: le famiglie delle vittime e dei soccorritori ricordano di lui il leader che abbraccia il vecchio pompiere tra le lamiere roventi.
Obama è il presidente a cui tocca concludere tutte le guerre di Bush, e gestirne ogni conseguenza dalla geopolitica al debito pubblico. Il primo giurò castigo per il regista degli attentati ma se lo lasciò sfuggire sulle montagne di Tora Bora e lo inseguì invano per sette anni. Il secondo ha centrato il bersaglio, ha eliminato Osama Bin Laden, per poi accorgersi che l’America ormai pensa ad altro. Nelle sei lunghe pause di silenzio di questa domenica mattina a Ground Zero (quattro per gli impatti degli aerei, due per i crolli delle Torri), Obama non può fare a meno di pensare che lui non sarebbe qui oggi, non avrebbe conquistato la presidenza, senza l’11 settembre e Bush. Da senatore dell’Illinois fu uno dei democratici a dire “no” alto e forte alla guerra in Iraq: quella scelta spostò su di lui i consensi dei pacifisti e di tutta la sinistra del partito, fu decisiva per sconfiggere alle primarie Hillary Clinton (che aveva votato il via libera all’intervento in Iraq).
Tutta la storia da quel momento in poi è segnata da un complesso passaggio delle consegne Bush-Obama, un alternarsi di strappi e di continuità . Lo stesso Obama che ha messo al bando la tortura, ha poi finito col tenere aperto il carcere speciale di Guantanamo. Ha considerato legittimo combattere i Taliban in Afghanistan fino a trasformare questo conflitto nella “guerra di Obama”, ha deciso una poderosa escalation con l’invio di 30mila soldati in più (il totale ha raggiunto 100mila), e al tempo stesso ha fissato l’inizio di un graduale ritiro a fine estate 2012. Un calendario che oggi appare sempre più problematico, mentre gli attacchi dei Taliban continuano e la minacciosa instabilità  del Pakistan nucleare apre problemi perfino più gravi. Anche in Iraq, “la guerra sbagliata”, Obama deve fare i conti con le difficoltà  sul terreno e l’ipotesi di ritiro totale dei militari Usa alla fine di quest’anno è ormai esclusa. È lui però il presidente che al Cairo nella primavera 2009 ha segnalato un “nuovo corso” nei rapporti con l’Islam, seminando così uno dei germi della primavera araba. È Obama che rompendo con la tradizionale realpolitik dei neoconservatori ha mollato al loro destino due dittatori amici dell’America, Ben Ali e Mubarak. Ma è sempre lui che sta manovrando in questi giorni per impedire una risoluzione Onu sul riconoscimento dello Stato palestinese.
L’intreccio ambiguo tra rotture e continuità  è ancora più denso sul terreno economico. È Bush a lasciare in eredità  a Obama la recessione più grave dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, ma è grazie all’appoggio decisivo del candidato democratico non ancora eletto che Bush riesce a varare il 3 ottobre 2008 il maxipiano di salvataggio delle banche (piano Tarp o piano Paulson) osteggiato dal suo stesso partito repubblicano. Bush trova il tono migliore della sua presidenza quando s’inerpica dieci anni fa sui detriti fumanti di Ground Zero, Obama ha il suo scatto iniziale quando affronta le macerie dell’economia americana con un maxipiano di rilancio della crescita. Dal gennaio 2009 non ha mai smesso di ricordare che il suo predecessore gli ha lasciato una nazione in bancarotta.
L’incontro davanti alle famiglie delle vittime, in un luogo che è simbolo di resistenza e di rinascita, dura pochi minuti. In quello scorcio di riconciliazione l’America può illudersi di avere ritrovato se stessa. Domani è un altro giorno: Bush di ritorno nella sua pensione dorata, al ranch di Crawford nel Texas, Obama in giro per il paese a promuovere il suo piano per l’occupazione, forse l’ultima chance per salvare il paese dal disastro, e se stesso dalla maledizione di “un mandato solo”.


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