Memoria e rimozione la doppiezza delle immagini

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Quando osserviamo le fotografie sull’11 settembre, quando guardiamo film o documentari dedicati alla caduta delle Twin Towers (in questi giorni le tv ne stanno riproponendo a decine) dobbiamo fare uno sforzo per cogliere ancora il senso del tragico di quelle immagini. Come se fossimo assaliti da un’indicibile, imperscrutabile paura: che non è solo quella della retorica delle ricorrenze, dei Memorial Day, dello stanco dovere del ricordare; no, è qualcosa di più profondo che pertiene tanto alla natura dell’uomo quanto a quella delle immagini.
Cominciamo dal punto di vista mediatico, che è più semplice. Dieci anni fa, l’orrore è andato in onda come mai era successo prima: le torri del World Trade Center in fumo, i morti, lo strazio dei soccorritori, l’America sotto tiro. E non si sapeva da chi.
E non si sapeva quante migliaia di vittime si trovassero intrappolate sotto le macerie. Era solo angoscia, angoscia incandescente. Il mondo intero, attraverso le tv, ha visto la morte in diretta, l’inizio di una di guerra, il più abietto attentato che la storia ricordi.
Da allora, quelle tragiche sequenze sono andate in onda mille volte e, ogni volta, hanno perso per strada un po’ della loro sostanza. Perché le immagini si consumano, si logorano se ripetute all’eccesso, diventano parte del nostro paesaggio visivo, abitudine, indifferenza. Non possiamo più ricordare per eccesso di ricordi, perché non c’è un ordine «morale» nel ricordo, perché c’è un presente che ci annega nelle chiacchiere, senza pathos, senza competenza. Così tutti i giorni, seduti davanti al televisore, dimentichiamo: non abbiamo più gerarchie, ci sfuggono i punti di vista, ogni dato equivale a un altro. Le immagini anestetizzano, fingono compassione, ma sono solo fuga disperata dall’angoscia.
I media dovrebbero accrescere il senso di memoria collettiva, ma è vero solo in parte. La nostra è un’età  di simulacri più che di documenti, un’era che con la sua visualizzazione totale rende tutto perfettamente contemporaneo. Una accanto all’altra passano le immagini di diverse datazioni, e ciò le rende attuali.
Tutto è sincrono. Il passato non esiste più se non come forma del discorso. Se non come vaghezza.
Il problema non è se sia giusto o meno mostrare le immagini dell’orrore, parlarne, discuterne: il contenuto morale di certe scene è fragile, muta con il mutare dei tempo e dei contesti in cui viene rappresentato.
Se mai, vi sono alcune immagini (i lager, la bambina vietnamita sfigurata dal napalm, le Torri Gemelle…) che hanno raggiunto «lo status di punti di riferimento morale». È questa condizione che bisogna preservare dall’idolatria del visibile. Le immagini che stiamo osservando su questa pagina ci mettono i brividi e possono cambiare il nostro modo di pensare, ma se le vedessimo ogni giorno perderebbero energia simbolica.
Qui entra in gioco la natura umana: che cos’è che fa sì che la memoria possa avere una vita propria al di fuori dei media? La questione non è tecnica ma etica: una cosa è soffrire (i vivi devono raccontare i morti come nutrimento della memoria, come rito e catarsi) e capire le ragioni di un simile spaventoso attentato; altra cosa, invece, è convivere con le immagini dell’esibizione del male, che non rafforzano necessariamente la coscienza. Possono anche corromperla, sdilinquirla. Se l’Occidente ha ragione nei confronti degli attentatori non venga meno alle sue ragioni di fondo: il senso della storia deve sempre prevalere su quello delle psicologie.
Il secondo libro del «De rerum natura» di Lucrezio si apre con un’immagine potente (ripresa in seguito da altri poeti): uno spettatore contempla dalla riva del mare un lontano naufragio; egli si diletta non delle tribolazioni altrui, ma del confronto tra la propria sicurezza e il pericolo e la rovina degli altri. È su questo sentimento — non godere del male discosto e inspiegabile ma del proprio inscalfibile punto di vista — che si fonda la nostra memoria di sopravvissuti. Nei nostri ricordi durerà  solo l’evento mediatico «September 11». Nessuno rimedierà  alle ingiustizie commesse ma tutti avranno la coscienza salva per aver visto in foto o in tv il sangue e la polvere di Manhattan.


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