Tema: l’Italia siamo noi

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Hitler ieri passò da Firenze per andare a Roma, tutta imbandierata. Si sente alla radio una gran confusione. È la folla che attende il Duce e il Fuhrer al Vittoriano. A me mi pareva proprio di essere in mezzo a tutta quella folla». A sentirsi al centro della scena è Romano Donnini, scolaro di una classe elementare di Firenze. Quello che abbiamo citato è uno stralcio del tema d’italiano da lui composto il 4 maggio 1938, XVI dell’Era fascista. Fa parte del materiale raccolto a cura del Festivaletteratura 2011 di Mantova per «riportare l’attenzione sulla centralità  della scuola» a centocinquant’anni dall’Unità  d’Italia.
Sono trecentoventotto testi che raccontano, generazione dopo generazione, la cronaca del nostro Paese, mescolando vicende familiari o di pianerottolo a eventi solenni. Non si tratta sempre di pensieri originali. Capita però spesso, a chi scorre queste pagine di quaderno, di soffermarsi magari su una sola riga, restando colpito ora dall’umore di chi scrive, ora dal comune sentire nazionale cui i bambini fanno eco. Il retroterra psicologico che distingue un tema scritto a fine Ottocento da un altro compilato nell’era di Craxi o consegnato alla maestra all’alba del Duemila sembra stridente. Se non fosse sicura l’autenticità  di questi messaggi scolastici, ci sarebbe da sospettare pesanti ingerenze da parte di familiari o maestri. Magari ci sono state. Il più delle volte, tuttavia, è proprio il modo ingenuo di reagire ai fatti a imprimere, su questi “elaborati”, un marchio di verità . Non so, per esempio, quale cittadino adulto saprebbe esprimere in maniera altrettanto naturale la sorpresa per l’elezione al soglio di San Pietro, trentatré anni fa, dell’allora semisconosciuto cardinal Wojtyla, di come fa Roberto, alunno di seconda elementare alla scuola Duca degli Abruzzi di Scandicci (Firenze). «Il nuovo Papa sa tante lingue. È polacco, ma a me piace lo stesso»: così Roberto evoca Karol in un tema datato «16. X. ’78». E prosegue: «Si è chiamato Paolo Giovanni perché vuole seguire la vita dell’altro Paolo Giovanni che è vissuto solo 32 giorni». «Scrivi meglio», raccomanda l’insegnante in calce al tema. Non ha torto, ma qui perfino l’errore relativo alla vita di Sua Santità  Luciani, arbitrariamente accorciata, rivela un’espressività  essenziale e perciò tanto più efficace. Come un paio di occhioni sgranati di fronte all’impensabile.
Spostiamoci indietro negli anni, fino agli inizi del secolo scorso, quando le scene raccontate dai bambini riguardavano l’arrivo in licenza del papà  – che interrompeva così per qualche giorno il compito di combattere, nella Grande Guerra, «con quel perfido austriaco» – o l’annunzio della morte d’un fratello maggiore, che ora giace «sotto le zolle straniere». Andiamo poi ancora più lontano nel tempo, a saggiare l’impatto che esercitavano sull’infanzia le avventure dei Carbonari. Spingiamoci infine di nuovo avanti di vari decenni, all’inseguimento di stagioni più consone alle nostre. La ricchezza dei materiali raccolti a Mantova ci conserte simili tragitti.
Ecco per esempio come si presenta a Paolo, terza elementare, il dibattito politico alla vigilia delle elezioni del 1948, tempi di aspra competizione fra la Dc e la sinistra socialcomunista. Il partito cattolico contava molto sull’elettorato femminile, e ne nascevano frequenti dissidi domestici, oltre ai soliti disordini «stradali». Un clima che Paolo avverte mentre si trova in tram con suo padre. «Una donna si lamentava perché le avevano rotto le calze con una pedata. Il fattorino del tram discuteva con un uomo. Cominciò a parlare della moglie, e disse: “Lei era del partito di quel sudicione di Degasperi che ci fa morire di fame”. Il fattorino domandò a quell’uomo: “E sua moglie di che partito è?”. “Comunista”. “Finalmente ho trovato un uomo con la moglie Comunista”. Poi noi si scese e non si sentì più niente».
Scuola rurale di Pezzolo (Bergamo). Tema d’un alunno di seconda elementare. Senza data. «Il babbo del Duce faceva il fabbro. La mamma era maestra. Nella casa di campagna Benito dormiva solo nella culla, e accoccolato ai suoi piedi sbadigliava un coniglietto bianco dal musetto rosso. Quando Benito si svegliava e piangeva il coniglietto gli passava il musetto sul viso in lacrime. Il bambino si calmava, il coniglietto si riaddormentava e tutti e due sognavano la mamma». Una specie di fiaba edificante, del tutto in linea con le direttive del Regime, cioè con quella «mobilitazione dell’infanzia in funzione nazional-patriottica» che Antonio Gibelli ha illustrato in un prezioso saggio, Il popolo bambino (Einaudi, 2005). Cambia la scena. Napoli, dopoguerra. Classe Quinta B. Tema: ricordo d’infanzia. Giuseppe Pistone improvvisa una rievocazione di sicuro impatto, e probabilmente fantasiosa. Settembre 1943. «Quando furono le Quattro Giornate, io ero piccolo, mio padre disoccupato. Avevamo pochi soldi per mangiare. Io andai fuori casa per trovare qualche cosa. Mentre camminavo vidi che i tedeschi bastonavano le persone. Un tedesco si avvicinò a me con un fucile in mano. Io avevo paura ma il tedesco non mi voleva fare del male, ma nascondersi per non essere preso dagli americani che venivano a liberare Napoli. Così si avvicinò un ragazzo che aveva la mia età  indicandogli un posto sicuro. Il povero tedesco ringraziò e ci regalò duecento lire a ognuno di noi. Io le portai a casa». Ecco che la paura della guerra si mescola con un tenero umanitarismo tipico della pedagogia dell’epoca. Ma si avverte anche il punto di trapasso nella mitologia dei minorenni dalla Piccola vedetta lombarda all’Io speriamo che me la cavo.
Troppo prevedibile? Andiamo di nuovo indietro nel calendario, a saggiare l’impatto esercitato sull’infanzia dalla figura del Carbonaro – quasi un Sandokan o un Superman avanti lettera – cioè l’eroe che nel suo nascondersi all’«austriaco» emana insieme avventura e trasgressione. E ancora avanti, subito dopo, verso tempi più consoni ai nostri. Spunta qui l’impetuosa suggestione che racchiudono le corse ciclistiche, con quella contesa Coppi-Bartali, che dà  vita a una sorta di Palio su due ruote, riecheggiato nelle scuole, fra il nord e il centro della penisola.
I temi ci offrono un metro per valutare gli italiani lungo un secolo e mezzo di storia? La pretesa – ripetiamo – è forse eccessiva, ma l’archivio raccolto dal Festivaletteratura la nutre di esempi. Ecco l’autoritratto di Giuseppe, classe quarta delle elementari di Mezzolara (Bologna). Anno 1895-96. Lui «è un garzoncello ben educato, quando va a mensa augura buon appetito a tutti, mastica bene il cibo. Non beve mai vino perché guasta i denti. Si contenta di quel che gli dà  la mamma e il babbo». A chi cercasse un contraltare meno zuccheroso a questo idillio consigliamo il componimento firmato da Antonio, e composto a Voghera il 27 febbraio 1980. È un racconto avveniristico. Il 23 febbraio del 2000, a Roma accadrà  l’imprevisto: scompare dal Quirinale Sandro Pertini. A notte, i russi emettono un comunicato: sono stati loro a rapirlo. Lo restituiranno se l’Italia si lascerà  occupare dall’Armata Rossa. Il premier Cossiga decide: è ora di effettuare il «piano X». L’epilogo è di marca eroica: scoppia la guerra italo-russa. «È l’una del mattino. In quel momento il presidio russo sul mar della Kara cede alla carica dei bersaglieri; alla loro testa ci sono i tre comandanti supremi dell’esercito italiano: Antonio C., Carlo G. e Giovanni F. Da quel momento è un susseguirsi di vittorie verso la conquista della Russia. Il 24 febbraio, ore dieci e quindici, in Italia si ode un grido di gioia. Grazie al piano X ora la Russia è diventata italiana».
Al suo tema Giovanni ha dato un titolo: «Sono il fondatore delle Brigate Azzurre». Francamente, ci mancavano.


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